Drive My Car

di Ryūsuke Hamaguchi

L'epica del lutto e il dramma di chi sopravvive nell'immenso film-romanzo di Ryūsuke Hamaguchi: punto di arrivo di un sottogenere, e punto di partenza per un nuovo maestro

Drive My Car - recensione film Hamaguchi

La visione incrociata di due film antitetici come Titane e Drive My Car rivela qualcosa in più del banale paraculismo della giuria di Cannes 2021. Il successo delle due pellicole sintetizza due opposte ma complementari visioni di un certo cinema contemporaneo – capaci di proporre qualcosa di nuovo e vitale in due sottogeneri forse marcescenti quali il body horror (per Ducournau), e il drammone di lutti (Ryūsuke Hamaguchi). Del primo, Titane è la resurrezione in nome della visionarietà deflagrata e barocca, trionfo del senso immaginifico del cinema; del secondo, Drive My Car rappresenta l'astrazione a parole, romanzo che si fa immagini in un lavoro che parte da un testo magistrale per trovare nelle scarne e solenni inquadrature un semplice supporto espressivo. E come non si può non provare istantanea simpatia per l'intransigenza quasi adolescenziale della poetica della francese, l'opera di Hamaguchi è invece a tutti gli effetti un film della maturità, il lavoro della consacrazione per un autore relativamente giovane che, dopo questo e l'Orso d'Argento a Berlino (per Il gioco del destino e della fantasia, girato lo stesso anno), è oggi ufficialmente una voce con cui fare i conti.

Quest'idea di romanzo cinematografico, portato in Drive My Car a vette di complessità intratestuale da vertigine, rappresenta una scoperta relativamente recente. In occidente abbiamo imparato ad associare un simile approccio alla produzione sudcoreana: e anche di fronte a Drive My Car, è in particolare molto facile trovarsi a ripensare a Lee Chang-dong - a testimonianza dell'impronta decisiva posta dell'autore di Burning sulle prospettive meno banali del dramma cinematografico moderno. E proprio con il capolavoro del 2018, l'opera giapponese sembra nutrire un rapporto di parentela diretta, quasi da corollario o naturale prosecuzione (anche in virtù della comune provenienza, la raccolta Uomini Senza Donne di Haruke Muramaki, involontario testo sacro di questi anni). Una corrispondenza che si ritrova non tanto nelle immagini, quanto in ciò che ne resta fuori - nell'ellissi del racconto, nel senso di nulla che sembra premere, al di là delle inquadrature, sulle vite degli enigmatici protagonisti: qui, un attore di teatro (Hidetoshi Nishijima), paralizzato da un lutto insostenibile (che arriva dopo quaranta minuti di prologo, a proposito di tempi letterari) e tornato in scena dopo due anni alla guida di una nuova rappresentazione dello Zio Vanja. Accompagnato dalla sua non meno sfuggente autista personale Misaki (Toko MIjura, perfetta), l'uomo si costringerà a indagare l'enigma della persona scomparsa, aprendosi per la prima volta a chi le fu vicino, scavando tra rimossi, sensi di colpa e segreti portati nella tomba.

Nel silenzio e nelle parole, tra sogni, teatro e racconto di finzione, l'elaborazione giapponese di Muramaki è però ben diversa da quella inquietante e spettrale proposta da Lee in Burning. Differenze minimali, che alterano il senso del testo e ne amplificano ulteriormente la sottesa dimensione umanista; al formalismo vertiginoso spesso portato al parossismo tipico del cinema di Seul, Hamaguchi antepone nella sua rilettura del connazionale la lodevole tradizione giapponese del rigore, Ozu e Mizoguchi, l'emotività attraverso l'economia di gesti e di movimenti. In quella che progressivamente si disvela come una fluviale epopea del lutto, l'autore chiama però a raccolta anche la tradizione del cinema sperimentale americano, della Scuola di New York e della buonanima di Cassavetes: quest'ultimo in particolare, citato ripetutamente nelle interviste, è probabilmente alla base del viscerale rapporto di Hamaguchi con i suoi attori, chiamati a contribuire come autori aggiunti alla resa dei rispettivi alter-ego filmici.

Rispetto all'esordio Happy Hour (sei ore di recitazione con non professionisti, ovviamente figlia di Volti e Mariti dell'idolo newyorkese), Drive My Car rinuncia in toto all'improvvisazione, incorporando organicamente la propria matrice letteraria in un discorso prettamente filmico sull'assenza, gli altri, la perdita. È strutturato geometricamente in tre ore, distese e dense come tre ore di lettura, in cui le mille diramazioni del testo principale moltiplicano le chiavi di lettura della parabola, acquisendo nuove prospettive a ogni punto di vista proposto. Una complessità che non è complicazione, ma confronto serio e necessario con le difficoltà di un tema raramente dissezionato così nel profondo (avrà rosicato anche qui, il povero Moretti? Ben più che per Titane, il ko tecnico con Hamaguchi glene darebbe modo). È un film di morti, di persone assenti, e dei misteri che continuano a lasciarsi dietro. Ma è anche un film su chi rimane, sul conoscere se stessi attraverso gli altri, senza trovare risposte, ma solo nuove domande con cui imparare a convivere.

Nel lento e penoso risveglio del protagonista alle persone attorno a lui, assume il ruolo centrale un discorso ulteriormente metacinematografico legato al senso della recitazione, e dell'interpretazione. Drive My Car mette alla berlina la propria stessa essenza creativa come processo sconvolgente, da temere e fuggire - come il protagonista, che venera Checov e assieme ne ha il terrore, inseguito dal suo "bisogna vivere" come da una maledizione. Un dolore legato al processo di gnosi che lo scrivere e interpretare altre vite porta con sé, disturbante e illuminante oltre ogni implicazione terapeutica. E' qui il vero centro e cuore del film, che alla diade di spazi esplicitamente psicanalitici del letto matrimoniale e della Saab in movimento, aggiunge il terzo polo del palco teatrale: tre spazi espressivi di autoanalisi, di scoperta dell'altro e dunque di sé. Drive My Car affida al suo stesso medium il ruolo più importante: tradurre le lingue senza voci di chi non parla, svelare l'esistenza di misteri senza soluzione.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 01/10/2021
Giappone 2021
Durata: 179

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