Safari

La caccia come metafora del cinema di Ulrich Seidl: stessa freddezza, stessa crudeltà, stessa amoralità.

Dalle cantine alla Savana il passo è breve, specie quando dietro la macchina da presa c’è l’austriaco Ulrich Seidl, probabilmente l’autore più radicale e “pericoloso” del cinema contemporaneo. In questa nuova tappa del suo bestiario umano, il regista di Import/Export e Canicola ci conduce nelle terre selvagge (anche se addomesticate per il turismo occidentale) della Namibia, dove gruppi di turisti borghesi si ritrovano ogni anno per partecipare a lunghe battute di caccia in cui in palio ci sono le carcasse di animali esotici: antilopi, impala, zebre, gnu e giraffe. Quella che un tempo era considerata una pratica elitaria è divenuta negli ultimi anni una prassi abbastanza comune e trasversale: dai giovani agli anziani, nessuno sembra resistere al fascino perverso dell’uccisione e alle scariche di adrenalina che ne conseguono. Anziché andare al mare chiusi in qualche resort, come la protagonista di Paradise: Love, i personaggi di Safari preferiscono inoltrarsi negli spazi aperti, mettendo alla prova le loro capacità balistiche. Gli animali sono tutto sommato secondari, un bersaglio vale l’altro, almeno che non si tratti di una specie particolarmente rara e/o prestigiosa, in quel caso oltre alle foto di rito si aggiungono i complimenti e la gloria personale. Quel che preme di più a questi particolari turisti è piuttosto la sfida con loro stessi nella pratica estrema dell’uccisione. La capacità di prendere la mira, di avere sangue freddo e controllo dei propri riflessi, d’individuare il punto (macchina?) ideale dal quale far partire il colpo, la precisione, ecc… Per certi versi una metafora perfetta del cinema di Ulrich Seidl. Stessa freddezza, stessa crudeltà, stessa amoralità. Quel che forse non sanno i personaggi però è che nel film occupano la medesima posizione delle loro vittime, in quanto oggetto/bersagli di uno sguardo implacabile che nell’atto di filmare sembra quasi fucilarli. Basti pensare a quello che è ormai il marchio di fabbrica (manieristico) di Seidl, vale a dire l’inquadratura frontale, che se da un lato riprende la composizione delle foto coloniali – qui raddoppiate dalle foto dei cacciatori con le prede – dall’altro assume le sembianze di un plotone di esecuzione. Anche se poi le cose non sono così facili. L’unicità (la pericolosità?) del cinema di Seidl risiede proprio nel cortocircuito morale che attiva, facendo convivere insieme la tentazione del giudizio critico e una certa malsana fascinazione che lo avvicina ai propri personaggi. In questo senso Safari può essere visto come il dietro le quinte del cinema di Seidl, di certo il suo film più teorico, consapevole e primitivo. Pensiamo ancora alle foto dei cacciatori, in cui pare di assistere alla preparazione di un set del regista: ricerca della carcassa da filmare, seguita dalla scelta della posizione dei corpi nello spazio. Corpi che sembrano essere già pronti per la loro imbalsamazione. Pratica conseguente a quella della caccia, e che qui curiosamente ci viene risparmiata. Al suo posto Seidl preferisce concentrarsi sulla macellazione degli animali, premessa necessaria all’imbalsamazione, ma soprattutto controcampo provocatorio che dovrebbe mettere in crisi il nostro punto di vista, nel momento in cui ci vengono sbattute in faccia le immagini di giovani africani intenti a mangiare voracemente quel che resta degli animali, stabilendo una dicotomia tra l’atto della caccia, ad uso e consumo dei bianchi occidentali, come un’escursione turistica con tiro al bersaglio, e quello della macellazione, che spetta invece agli autoctoni, in un tripudio di sangue, budella ed escrementi. Approdo ideale di un cinema che ama solo quello che detesta.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 04/09/2016

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