Se voglio fischiare, fischio

Se voglio fischiare, fischio. Un titolo chiaro e tondo, un’imposizione sfrontata di libertà, un’ingiunzione prepotente e netta per ripartire dopo Ceausescu. Tratto dall’omonimo adattamento della commedia di Andreea Valean, il film si inserisce in quell’ormai definibile “nuova onda rumena” che conta registi come Cornelium Porumboiu autore di A est di Bucarest, o come Cristian Mungiu, autore Palma d’Oro a Cannes con il suo film: 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Se nella conta facciamo rientrare anche un altro premiato regista come Radu Mihaileanu, possiamo ben definire il corso del nuovo cinema rumeno.

Un Paese dopo un dittatore vive della foga della rivolta e dal sangue della rivoluzione, questi registi crescono in quegli anni, cercando di storicizzare il passato, raccontano ciò che vedono intorno a loro, la realtà attuale della Romania europea. Autori con un passato con il quale fare i conti ed un presente da raccontare, una nuova “politica degli autori” dal carattere più spoglio, che recide la sua parte intellettualizzante o critica e il suo stile realista-edonista, propri più della famosa corrente francese. Conservandone, però, il medesimo istinto di superamento autoriale, di rinascita sociale e culturale, una “politica degli autori” rivolta al Paese, quello vero, presentato attraverso storie vissute veramente, di stampo, certo, più verista. Qualcosa sta nascendo e si sta sviluppando nel carattere culturale rumeno, questo è accertato. E noi, l’Italia cinematografica, stiamo facendo la parte che gli americani facevano con noi negli anni ’50: le nostre produzioni si spostano lì perché costa meno, oppure perché da noi non è possibile girare un film come Diaz. Purtroppo per rinascere si deve per forza morire, e qui da noi agonizziamo ma non crepiamo.

Florin Serban, regista alla sua opera prima, si inserisce pienamente all’interno di questa nuova onda balcanica, filmando – e riuscendoci molto bene – la verità attuale del Paese reale, inscrivendola all’interno di una storia specifica e particolare. Silviu, è un diciottenne romeno che sta scontando quattro anni di riformatorio. Quasi alla scadenza della detenzione gli fa visita il suo fratello più piccolo e gli dice che la loro madre è tornata dall’Italia e vuole che la segua nel suo ritorno nel nostro Paese. Silviu non vuole lasciare andare suo fratello con la madre, non vuole che lui sia trattato dalla madre come precedentemente è stato egli stesso trattato, come un figlio da compagnia, un pacco da rispedire indietro appena trovato un nuovo compagno di vita. Ma Silviu è in riformatorio, non può uscire e deve stare buono, deve passare i nove giorni che lo separano dall’uscita dal carcere, ma le tensioni aumentano. Viene provocato da gli altri giovani e lui, impotente per paura di non uscire, deve sottostare. Conosce una giovane e bella operatrice sociale, ma lei benché incuriosità da lui ne rimane distante, svolgendo solamente il suo lavoro. Nel mentre, suo fratello potrebbe partire da un momento all’altro, convinto dalla madre. Dopo un furibondo faccia a faccia con la stessa, Silviu non ce la fa più, la tensione è tanta e non riesce più a controllarla.

Il regista firma un lavoro pieno di rimandi sociali, nodi tessuti tra il particolare, perciò la storia specifica di un ragazzo ed una lettura del Paese reale, osservata sia da punto di vista sociale che economico. Nel classico stile grezzo ed asciutto del realismo più sincero, Serban nasconde la storia di un Paese intero, caricando i personaggi di una sotto-struttura simbolica, riuscendo a veicolare attraverso la semplicità e sincerità della storia e dei personaggi un messaggio di disamina e critica del suo Paese. La madre distante, che lascia il proprio figlio vivere e crescere in mezzo ad una strada, fa rima con una Patria un po’ puttana, che si prostituisce economicamente, mettendo al mondo figli e poi non sapendo che farsene. La voglia di far restare il proprio fratello in Patria, si scontra con la tendenza e necessità dell’espatrio, soprattutto verso l’Italia, e se si intende il cinema come specchio e chiave di lettura sociale, questo film potrebbe ben definirsi come una sommessa richiesta di rinascita nazionale, un appello alla gioventù romena di restare e di crescere insieme. Certo, il finale disillude tutte le aspettative di cambiamento, lo Stato e la sua Storia arrivano sempre a riprenderti dalla fuga togliendo speranza ma facendo guadagnare in coraggio.

Lo stile è nudo e crudo, la camera si appiccica alle spalle del personaggio, lo segue ovunque, parte con lui e finisce con lui – o camera a spalla che lo rincorre, oppure ferma osservatrice di silenzi. La rabbia del protagonista aumenta scena dopo scena, le vie d’uscita diminuiscono e noi, spettatori, stiamo lì con lui, ad un metro e mezzo dalla sua schiena, a vivere esattamente la sua situazione. Immedesimazione riuscita pienamente: Silviu non lo si lascia mai, lo si segue nervosamente nei suoi spostamenti, e solo alla fine è lui che esce dal nostro campo visivo, lasciandoci con un piatto e poco liberale panorama rumeno. L’interpretazione dell’esordiente George Pistereanu dà la carica a tutto, rimanendo intensa e vera. Orso d’argento e Premio Speciale della Giuria a Berlino – in quell’edizione, la sessantesima – che ha visto vincere l’Orso d’Oro il regista turco Kaplanoglu per Bal quando già si vociferava una possibile vittoria di questo film. Ci vuole coraggio; questo il messaggio del film e questo il messaggio per i giovani dal regista, preso da una recente intervista: “Chiudete gli occhi e inseguite il vostro sogno, e quando sembra svanire, afferratelo coi denti e non fatelo scappare. La filosofia mi ha aiutato tantissimo. Mi ha aiutato ad essere impertinete e ad avere il coraggio di lottare corpo a corpo con qualsiasi tipo di idea“.

Loro evidentemente ancora riconoscono i sogni e sono disposti a lottare per realizzarli, se loro “vogliono fischiare, fischiano“, mentre noi ci siamo un po’ dimenticati di saper sognare e la lotta si fa solo per gioco in un’Italia politicamente corretta proviamo a fischiare ma ciò che esce non è fischio ma aria, poca, che non emette alcun suono. E se dovesse emetterlo, lo facesse lontano dal proprio Paese.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 18/02/2015

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