Eastern Drift (Indigene d’Eurasie)

Presentato alla Mostra del Cinema di Pesaro 2010, Eastern Drift (Indigene d’Eurasie), lucido e tagliente lungometraggio del regista e attore lituano Sharunas Bartas è un film d’azione e insieme una dolorosa e acuta riflessione esistenziale.

La storia è quella di Gena (interpretato dallo stesso Bartas), che tenta di chiudere i suoi affari con la mafia russa e nel frattempo si divide tra due donne, Gabrielle e Sasha. Gabrielle, una giovane e affascinante ragazza francese, vive con lui in un appartamento spoglio e trasandato, in Lituania. Vorrebbe andare in Francia con Gena ed è stanca dei suoi atteggiamenti sfuggenti e vaghi. A Mosca però l’uomo intrattiene una relazione con Sasha, una prostituta che, in ostaggio dei suoi protettori, spera di porre fine alla sua vita di squallore e violenza fuggendo proprio con Gena. Nel frattempo, il protagonista uccide un capomafia e poi un agente di polizia. Braccato senza sosta dai suoi inseguitori, inizia una fuga disperata e senza scampo. I personaggi si muovono in un mondo livido e freddo, dominato da leggi brutali e insensate, in cui è possibile solo vivere alla giornata e tentare di difendersi opponendo alla violenza altra violenza. Disincantato, combattuto, indurito da una vita di soprusi ora subiti ora compiuti, Gena si dibatte in una ragnatela che man mano si stringe attorno a lui. Trascinato in un meccanismo senza fine di vendette e ritorsioni, contribuisce lui stesso a muovere gli ingranaggi della grande macchina (mafia, corruzione, omicidi, commercio di droga) di cui infine sarà preda.

Quello di Bartas è un film lucido e amaro, fatto di paesaggi innevati e interni dominati da penombre gelide e tristi. Nello sguardo penetrante del regista/attore ogni cosa acquista contorni nitidi e definiti ed è ritratta impietosamente nella propria essenziale nudità, dai corpi lividi dei protagonisti ai loro volti espressivi, fino a quei meccanismi sociali e politici (sullo sfondo, la caduta dell’Unione Sovietica) che determinano le regole spietate di un universo disperato e violento. Le persone che appartengono all’universo descritto, suggerisce il regista, non hanno possibilità di salvezza, né appigli a cui ancorarsi, perché in una certa misura contribuiscono loro stesse alla propria inesorabile autodistruzione. Il protagonista tuttavia è sempre dolorosamente cosciente della sua condizione e della realtà che lo circonda. Significativo il passaggio del film che descrive la sua fuga nel bosco, dove lo vediamo, nudo, scaldarsi accanto a un fuoco. Qui, sporco, infreddolito, affamato, ridotto a vivere come un animale in una dimensione dominata ormai solo dagli istinti primordiali, improvvisamente consapevole dell’assurdità e dell’irreversibilità della sua situazione, si abbandona a un pianto desolato. Che la dimensione in cui i personaggi si muovono sia senza via d’uscita lo confermano le parole fuori campo del protagonista che accompagnano le prime immagini del film, in cui la sua voce bassa e monotona descrive in poche frasi, asciutte e lapidarie, l’orizzonte delle cose. “La vita è breve. La maggior parte di essa è già passata, e non me ne sono neppure accorto. Vorrei fare un respiro profondo e vivere una vita normale”. Ma questo, per un uomo senza radici, un “indigeno d’Eurasia” – come Gena si definisce – cresciuto allo sbando tra i criminali, non è possibile. Senza patria, l’uomo è in continuo movimento tra Vilnius, Mosca e Parigi, ora lungo le vie del commercio della droga, ora solo inseguendo il suo disperato bisogno di sopravvivere e lasciarsi alle spalle gli uomini che lo inseguono.

Dopo alcuni lungometraggi caratterizzati da una solida ricerca stilistica e da toni disciolti e a tratti visionari – Trys Dienos, Koridorius, The House, Few of Us, Freedom – presentati e apprezzati in vari festival europei, Bartas compie, con questo film, un’incursione nel noir, di cui prende in prestito gli schemi per comporre un mosaico complesso e ampio, in cui un discorso in un certo senso sociologico si intreccia, come detto sopra, con una meditazione satura d’inquietudine sull’esistenza umana. Agile e coinciso, bagnato da una luce fredda e malinconica, il film conferma l’acutezza di Bartas come regista e insieme le sue capacità come attore.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 18/02/2015

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