Sex and Sensibility - La femme fatale come misura scomoda
Dall'autore di "Brivido caldo - Una storia contemporanea del neo-noir", un'introduzione al nostro focus monografico dedicato alla figura della femme fatale nel cinema contemporaneo.
[Questo articolo apre uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto quest’introduzione, in cui vengono tracciate le linee guida del nostro lavoro per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].
Il 10 marzo 2021 Sharon Stone compie 63 anni. Non mi pare sia un evento eccezionale, non è una cifra tonda, non scavalla in zone anagrafiche sensibili. Tuttavia i notiziari italiani (non saprei degli esteri) celebrano l’anniversario con servizi tematici, insistendo sulla sola immagine paradigmatica a loro disposizione, quella di Basic Instinct, e sull’autenticità terrena e umana di una sex-symbol evidentemente intramontabile. È curioso – vado a memoria – che si tratti di un appuntamento mediatico che si ripete ogni anno, a ogni candelina dell’attrice. Escluse le star locali, e fatta eccezione per Madonna, non ricordo altre icone dello show business cinematografico lusingate – e viziate – con tale regolarità informativa. Non Julia Roberts, ad esempio. Non Meryl Streep. Non Nicole Kidman. E dubito che gli esibiti impegni umanitari della signora contino a questo proposito qualcosa: datemi una Hollywood non scopertamente (e ipocritamente, direbbero in tanti) filantropica e cambiamo la Storia.
Credo che la ragione italiana di questa emblematica persistenza appartenga alla radicata coscienza maschilista e patriarcale di un paese dalla memoria cortissima e dedicato direi interamente al culto degli ex voto, sia sacri, sia profani, perché le due cose – è noto – non possono andare separate. Non importa che Sharon Stone interpreti altri ruoli: è Catherine Tramell, gambe accavallate, tacchi alti, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, davanti a un plotone di polizia che interroga e che fissa, sbircia, luma, a scrivere un modulo estetico e il proprio modulo. Non c’è altro, non può esserci altro. Da noi la dark lady del film di Paul Verhoeven è l’unica prospettiva scopica ammissibile e perciò da festeggiare – bisogna ammetterlo - con coerenza ideologica; un oggetto sessuale che è la geografia di una concupiscenza ancora oggi primitiva, la proporzione sistemica di uno sguardo egemonico fondato e modellato sul desiderio padronale, sul possesso e, nei casi “migliori”, sulla sottomissione. Con una precisazione interessante, però, ancorché assolutamente nefanda e perciò inconfessabile in una società fallocratica: che la sottomissione non è una fantasticheria a senso unico, cioè dell’uomo nei confronti della donna, è piuttosto una condizione auspicabilmente reciproca, in particolare quando entra in gioco una femmina (fatale) così algida, statuaria, decisa, attiva.
Tornando al principio, è significativo dunque quanto i media facciano il gioco dell’egemonia sessuale mentre favoriscono, di anno in anno, e loro malgrado, l’eterna riproduzione di un’idea di donna a suo modo archetipica, oggi probabilmente obsoleta eppure così necessaria, così meravigliosa. Ancora adesso Catherine Tramell non è soltanto il simbolo di un’espressione cinematografica purtroppo perduta, bensì – con sempre maggior forza, di compleanno in compleanno - la rappresentazione di una verità epistemologica, che cioè l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato). Credere alla femme fatale di Basic Instinct significa credere che il cinema, al di là dei suoi “destinatari” e dell’ambiguità dei suoi cerimoniali, possa fare ancora la differenza. Perché le dark lady del noir e del neo-noir questo incarnano, una differenza di senso e una differenza visuale, la nota non allineata, la sbavatura nella quale inevitabilmente (e con estremo godimento) abbandonarsi. Provate a presupporre un mondo senza femmine spietate, doppiogiochiste, perverse, malsane, che usano e si usano, che sfruttano e si sfruttano quali emblemi del dominio delle idee, materia della bramosia, cosa bellissima di cui disporre: non è un bel mondo, non sono belle immagini, eppure non è un brutto sogno, è il nostro mondo, questo qui, che non ha più sesso da offrire sul banco, gambe accavallate e poi aperte, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, però ne ha invece tanto da teorizzare, tutelare, agevolare nelle sue intonazioni aggiornate.
Ma la dark lady non è semplicemente un costrutto, è carne viva; non è un principio o una formulazione dell’anima, è un corpo contundente, un volume, un ingombro. Quanto mi augurerei di essere travolto di nuovo da un impiccio così erotico, dai brividi caldi delle nemiche del conformismo, quelle che non ci stanno a essere piegate e addomesticate, che non invocano l’uguaglianza, che cercano e difendono la disomogeneità di genere con le unghie laccate, con il rossetto, con i fianchi, con il seno prosperoso e con la vulva. Vorrei quindi che la donna più stereotipata tornasse a perseguitarmi. Perché vorrei tornare a vederla, a osservarne le curve, a lasciarmi sedurre dal suo profumo. Sono stufo della sola teoria. Sarei l’uomo più felice della terra se una nuova Catherine Tramell mi scopasse a sangue, trafiggendomi o anche soltanto minacciandomi con un punteruolo per il ghiaccio. Pretendo di identificarmi ancora con Gary Oldman, che in Triplo gioco (1993, Peter Medak) teme in isolamento nel deserto il ritorno di Mona (Lena Olin), che quasi l’ha stritolato con le gambe; esigo di essere ancora Peter Berg comandato e stuprato da Linda Fiorentino in L’ultima seduzione (1994, John Dahl), o Matt Dillon nel threesome con Neve Campbell e Denise Richards in Sex Crimes – Giochi pericolosi (1998, John McNaughton). Vorrei insomma che la femme fatale fosse ancora una verità dimensionale, non un’astrazione. Da ammirare nuda, non con gli abiti eleganti della dottrina. Imploro il cinema di mostrarmi ancora un ombelico, un fondoschiena, di farmi percepire ancora un orgasmo, e non esclusivamente un cuore verde come il denaro come quello di Rosamund Pike di I Care a Lot (2020, J Blakeson). Non voglio una cartina al tornasole: voglio un film.