Shield of Straw

Shield of Straw è un’opera esplosiva di intrattenimento purissimo, due ore concitate nelle quali lo spettatore si ritrova smarrito e senza coordinate.

Sono trascorsi ormai dieci anni da quando il nome di Takashi Miike è entrato di diritto nell’immaginario cinematografico della nostra penisola; da quando cioè abbiamo potuto cominciare a godere per la prima volta delle visioni di un regista dotato di uno sguardo e di una personalità in grado di sconvolgere completamente le nostre certezze da spettatore occidentale medio. Altri tempi davvero, quando non ancora tutto era a portata di click o di una ricerca su internet; quando si sfogliava famelicamente qualsiasi rivista di settore alla ricerca della perla nascosta; quando scoprire un nome e un volto nuovo significava innanzitutto spostarsi fisicamente, in giro per i vari festival minori, nelle aste e nei mercatini. Insomma, quando tutto era molto più difficile, faticoso e costoso (anche in termini meramente economici): ma anche decisamente più soddisfacente. Chiunque potrà quindi essere in grado di comprendere benissimo, qualora non l’avesse vissuto in prima persona, cosa abbia potuto significare venire a conoscenza di un autore simile, in grado di dimostrare una prolificità impensabile per chiunque, e sempre con risultati altissimi. Anche nelle opere minori, anche nei lavori più smaccatamente commerciali. E chissà quanti furono in gradi di prevedere che questo fenomeno (non potrebbe esistere termine più corretto per definirlo) non sarebbe durato per sempre. Perché Miike oggi è un autore che non sconvolge più come in passato, e sarebbe veramente difficile riuscire a dimostrare il contrario. La sua presenza nei festival maggiori è un dato di fatto ormai quasi scontato, mentre ai tempi rappresentò una vittoria eclatante per chiunque lo avesse amato fin dall’inizio. E anche se nessuno ormai si aspetta da lui un nuovo Ichi the Killer, un nuovo Audition o un Gozu (ma chissà, forse in futuro sarà ancora in grado di stupirci), nondimeno la sua produzione contemporanea merita l’oblio: tutt’altro. Proprio Shield of Straw sembra in qualche modo la sintesi perfetta di cosa sia il cinema di Miike, ora: chiuso all’interno di una dimensione inevitabilmente commerciale, eppure ancora in grado di graffiare e di lasciare il segno. Un film che ha tutte le carte per essere definito un blockbuster in piena regola, senza tralasciare neppure qualche strizzatina d’occhio (troppe, forse) a certi epigoni occidentali.

Un magnate mette a disposizione una taglia di un milione di yen sulla testa del maniaco pedofilo che ha ucciso sua nipote; mentre la mole spropositata della cifra attira potenziali giustizieri improvvisati da tutto il Giappone, un nucleo di poliziotti scelti si ritroverà a dover proteggere il criminale a costo della propria stessa vita. Inutile specificare che tali premesse esplosive sembrano cucite appositamente addosso al regista, il quale si trova perfettamente a proprio agio nel mettere in scena uno script che, da solo, già svolge buona parte del lavoro. Impossibile negarlo: per Miike Shield of Straw è l’ennesimo film da girare con il pilota automatico, ma questa affermazione non deve trarre in inganno. Ancora una volta ci troviamo dinanzi a un’opera esplosiva di intrattenimento purissimo, due ore concitate nelle quali lo spettatore si ritrova smarrito e senza coordinate: la rappresentazione di un caos innanzitutto etico, che porta a sfumare le differenze fino quasi a cancellarle completamente. Tutti contro tutti, senza alcuna distinzione tra i concetti di Bene e di Male. Sono infatti proprio questi i momenti in cui si avverte maggiormente la mano di Miike, quando cioè si assiste a un’esasperazione infinita dei sentimenti messi in gioco, disattendendo le aspettative per rimettere nuovamente tutto in discussione. Un film che si rigenera in continuazione, andando a delineare i contorni di un universo nel quale il Male è un’entità concreta che si spande a macchia d’olio, contaminando qualsiasi cosa. Nulla di nuovo, è vero; e neppure portato fino alle estreme conseguenze come, forse, sarebbe stato lecito aspettarsi. Ma la postilla finale, da sola, è uno sberleffo fin troppo eloquente (come a dire: è stato tutto inutile), una degna conclusione per l’ennesima produzione alimentare di un regista comunque in grado di continuare a sorprendere il proprio pubblico.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 03/10/2014

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