Haze
Il primo contatto tra Tsukamoto e il digitale è un mediometraggio che fa da spartiacque nella sua filmografia e summa del suo primo percorso artistico.
Privo di memoria e identità, un uomo si sveglia in un mondo da incubo, una trappola di geometrie impazzite in cui lo spazio soffoca, comprime, punge, lacera. Una tubatura di ferro incastrata tra i denti, i piedi tormentati dal filo spinato, le ossa e i muscoli schiacciati dai muri di un luogo claustrofobico, che obbliga a movimenti minimali e pose innaturali mentre il dolore e il panico pompano in ogni angolo del corpo. L’oscurità è pressoché totale, fanno eccezione soltanto pochi punti luce che però rilanciano l’orrore piuttosto che schiarire le tenebre. Quel che vediamo oltre la frattura di un muro è una schiera di dannati, uomini nudi colpiti da un tormento che li attraversa come una scarica elettrica; in un altro momento lo spazio si allarga ma lo fa per contenere, letteralmente, un bagno di sangue, un fiume carontesco in cui galleggiano brani seviziati di corpi senza volto. L’incubo sembra essere senza senso, ciclico, meccanico. L’unica alterazione in questo meccanismo sarà l’incontro con una donna, anche lei priva di identità per quanto aggrappata ancora a qualche vaghissimo ricordo. In due forse troveranno una via d’uscita, ma è presto evidente che non può esserci soluzione razionale in questo labirinto di sofferenza.
Radicale, asfissiante, aggressivo. Di tanti film si parla in termini fisici, di impatto su corpo, occhi e nervi dello spettatore, e in quest’ottica Haze è un passaggio obbligato, un film che in soli 49 minuti è in grado di erigere una cattedrale da incubo attorno al corpo umano e poi farla collassare, andando ad opprimere e lacerare ogni resistenza. Tuttavia Haze è tutto fuorché un mero esercizio di stile, una casa degli orrori uscita dal peggiore dei luna park.
Realizzato nel 2005 come parte del “Digital Short Films by Three Filmmakers” (progetto di sperimentazione digitale promosso annualmente dal Jeonju International Film Festival, che nel 2005 vedeva presenti anche il coreano Song Il-gon e il thailandese Apichatpong Weerasethakul), Haze rappresenta un tassello cruciale del percorso registico di Shin'ya Tsukamoto, un mediometraggio che ritorna prepotentemente all’aggressività (cyber)punk degli esordi, a quel Le avventure del ragazzo dal palo elettrico di cui qui si respirano non tanto le ossessioni cyber quanto il rapporto strettissimo tra energia della visione e tecnologia messa in campo, non più pellicola a 16mm ma sguardo digitale ai suoi primi passi. Del digitale Tsukamoto sottolinea tutte le imperfezioni, facendo dell’immagine digitale una pasta tattile che si nutre senza soluzione di continuità del corpo e dell’oscurità dello spazio, dato che i confini della carne sembrano sfaldarsi nel vuoto prima ancora che nel contatto con le infinite asperità che costellano il non-luogo del mediometraggio. Ma soprattutto, in questo legame tra passato e futuro che rilancia la violenza e il pessimismo radicale delle opere giovanili, Haze rappresenta una sintesi straordinaria dei due macrotemi da sempre basilari nel cinema di Tsukamoto, ovvero l’alienazione urbana frutto del feticismo capitalistico e le aberrazioni che questa genera all’interno della relazione uomo-donna. Ad un certo livello infatti il mondo di Haze è il correlativo oggettivo di una crisi di coppia, la manifestazione onirica di un disagio profondissimo che porta un marito e una moglie ad uno scontro quasi mortale (ma i due troveranno da questa crisi una via d’uscita, come dimostra il flashforward nel finale e soprattutto l’ultimissima scena, che trova i coniugi uniti ad osservare la luce oltre l’inferno). Andando più a fondo però entriamo a contatto con una rappresentazione diretta delle forze che generano tale crisi, ovvero quelle leggi socio-economiche che portano alla mercificazione dell’individuo e dei rapporti, alla frammentazione del tessuto sociale, alla schizofrenia dell’identità. I corpi macellati mostrati da Tsukamoto sono evidentemente quel che resta dell’individuo soggetto alla legge del mercato, una meccanizzazione che scarnifica e opprime nutrendosi del corpo isolato e ridotto a merce. È solo nel ritorno alla coppia allora, nella riscoperta dei sentimenti umani oltre una selva oscura assemblata di meccanismi bestiali e orizzonti di morte, che è possibile ripristinare la condizione umana e sopravvivere alle sue aberrazioni.