È un film su commissione, questo Hiruko The Goblin, realizzato da Shin’ya Tsukamoto – alla sua prima volta con una major – per conto della Shochiku. Film alimentare potremmo dire, non si trattasse di uno come lui, in grado di far crescere una personalità imponente e soverchiante pure su un terreno di committenza, accettata soprattutto per poter far fruttare successivamente e in piena libertà l’exploit di Tetsuo.
In Hiruko The Goblin non v’è traccia di un modus operandi da timbratura del cartellino, di un freno a mano nell’espressione stilistica e nell’estetica schizofrenica che caratterizza, a volume più o meno alto, il corpus del Nostro, sebbene abbia certo un appeal da pubblico, detto volgarmente, “di massa”, questa storia di un mostro pseudo-leggendario, a cui un archeologo dal cuore spezzato e il fegato di ferro dà la caccia da tempo, e che si ritrova ad affrontare una volta per tutte all’interno di una scuola, spalleggiato da un pavido ma volenteroso studente al quale è peraltro imparentato. E tuttavia Tsukamoto ci spalma sopra fin dalle prime battute una glassa autoironica e irrequieta. Incontriamo il protagonista, l’archeologo Hieda, mentre scava con solerzia un cumulo, con tanto di spirit detector; un Indiana Jones nipponico che ispira ben poca epos. Subito dopo, lo squarcio bucolico incornicia una fanciulla cortese, Reiko, unico elemento di purezza del film, che difatti si trasmuta immediatamente in una visione perturbante e grottesca, quando lei e il suo professore risvegliano il maligno. Ma il regista rimanda il più possibile l’evidenza dell’orrore, preferendo il piacere tensivo dell’implicito e, soprattutto, la creazione di un contesto di negazione erotica: quando il giovane Masao, il co-protagonista, intercetta un avvicinamento compromettente fra Reiko (suo oggetto d’amore) e appunto il prof (suo padre!), ad avanzare è il turbamento ormonale, che scompagina comicamente il pericolo del momento e fraintende la condizione emotiva: è come se fosse quel bacio a creare il mostro, come una specie di sberleffo favolistico, che viene subito celato e si risolve in uno spruzzo di sangue che innaffia il vetro, come una sorta di flash mestruale o il teaser di una possibile culminazione orgasmica.
Ed è anche in queste impennate febbrilmente cartoonesche, negli scarti slabbrati – come la soggettiva in convulso affanno della bestia – che si delinea chiaramente un’incarnazione brutale e nevrotica dell’impulso sessuale forzosamente negato: quello, solo potenziale e accennato, della studentessa per il prof, quello ribollente del compagno di classe per lei, quello dell’archeologo per una donna morta. Un fil rouge che trapassa l’intero film e lo rende ripetuta esposizione spettrale di immagini di turbamento, prima di tutto sessuale, appunto negato; nella prima metà il Goblin è principalmente una scarica elettrica incontrollata e inconsulta come un brivido erotico – non a caso il sovrannaturale arriva dal sottosuolo, da percezione invisibile a forza demoniaca inconosciuta fino al momento fatidico, poi la possessione e la consumazione dell’omicidio è rapida, un battito impercettibile difficile da cogliere, un male endogeno che l’uomo adulto combatte da un lungo periodo (casto, giacché privato dell’amata) e che trova invece il ragazzo inerme. E quando l’immagine del mostro nella seconda parte diventa esplicita – testa di fanciulla e fisico aracnide – si esplicita anche la sua tattica omicida, la penetrazione dell’inconscio – con allucinazioni oniriche – e della carne tramite protuberanze che, lui sì, utilizza a profusione. Il racconto del mostro come entità onnipresente e ubiqua, onnisciente e sfarinata (visi che compaiono improvvisamente su un groviglio di rami o sotto una pentola o nel buio di una parete o dentro i sogni o dentro la testa) è insomma una messa in esistere – immediata, semplice ma efficacissima – di pulsioni erotiche e di morte e viceversa che, pur estroflettendosi dalla propria realtà – il corpo, di Hieda e di Masao –, sono comunque sempre addosso ai due protagonisti, e sempre fuori dal loro controllo, mai sfogate fattualmente ma solamente visualizzate come dannazione da estirpare. Tutto parte da ciò che hanno visto e che ha acceso l’impulso, e per questo la loro pulsione scopica viene continuamente frustrata e punita, mentre l’orrore è in azione su un proscenio istituzionale, quello scolastico, un rigido impero formale dell’ordine e delle regole, inesorabilmente fatto a pezzi. Perché nell’opera di Tsukamoto non ci sono confini all’iconoclastia e alla dissacrazione delle catene sociali, di quelle mentali, di quelle che ci autoinfliggiamo.
Su tutto, comunque, spicca predominante il semplice gioco del cinema, delle sue irradiazioni (quella specie di Necronomicon, quella covata finale, quelle crepe violente e mutanti che sono figlie ritornanti della Cosa carpenteriana), il semplice godimento del gesto cinematografico, che in Tsukamoto è sempre un atto d’indipendenza da qualunque restrizione di forma, narrativa o di genere che dir si voglia. Per cui il cinema è fucina di mutazioni, prima che metaforiche, di libertà: l’intemperanza magica, l’incantamento delle carni sanguinolente può venire da un arazzo di tatuaggi funerari come da una visione rubata, ma è sempre una questione di immagine tattile, sensoriale, sia essa sovraesposta o sconfessata, senza via di mezzo alcuna, come nel suo abissale capolavoro Kotoko, dove era la permanenza dell’immagine rifratta, decomposta, il riesumarsi malato e reiterato di shock post e pre traumatici, di inquadrature interiori ridotte a brandelli, a istituire il profilo di un corpo mostruoso per la sua natura o il suo passato.
Hiruko The Goblin si muove certo su un piano molto meno complesso, corteggiante il piacere del B movie (il finale, poi, è uno sbeffeggio di classico quasi inaudito, con il sole/la luce per sconfiggere il Male, l’elmo e la formula da recitare per far battere in ritirata le forze oscure; e la gravitas del duo che osserva le anime in volo è comunque irrisa dalle sembianze ridicole delle anime), l’ambizione apparentemente bassa, condotta su una superficie visiva e narrativa basica, una succitata essenzialità che ne fa un divertissement isterico e bambino; ma il bello di Tsukamoto è che si permette sempre di tutto, anche in un film etichettabile come minore come questo Hiruko – e che dire allora di Killing, che pare fatto con due lire in un weekend eppure che potenza, che statura tragica –, innestando in una storiella mainstream di genere una profonda consapevolezza del mezzo e del suo uso, una contaminazione di umori cinematografici (horror, commedia, demenziale e melodramma naif – per entrambi i protagonisti c’è un lutto vecchio o nuovo ed è su quello che lavora l’orrore –) e una continuità poetica: Hiruko è una ghost story romance, dopotutto, ancora una volta, dove alla radice della maledizione c’è una frattura pulsionale-amorosa, e dove i fantasmi si scoprono dolorosamente di carne.