Tetsuo: The Bullet Man
Il terzo e ultimo capitolo dell’Uomo di Ferro, tra sintesi e nuove mutazioni.
A quasi vent’anni dal primo Tetsuo, il terzo capitolo della trilogia dell’Uomo di Ferro approda al lido di Venezia nel 2009. Molte cose sono cambiate: Shin’ya Tsukamoto è ormai riconosciuto come un autore di primissimo piano dalla cinefilia e critica internazionale, come dimostra la presenza in concorso alla Mostra del Cinema, mentre il cinema digitale ha cambiato le regole del gioco e reso più accessibile la realizzazione di opere “leggere” e autoprodotte come fu il capitolo del 1989 (girato in 16 millimetri). Tetsuo: The Bullet Man è il prodotto di tutti questi cambiamenti: una riflessione sul passato, un punto fermo su una storia ancora attuale e conturbante, una mediazione tra epoca analogica e digitale.
Il cuore di The Bullet Man è sempre la trasformazione/evoluzione del corpo, il dolore di una mutazione ineluttabile. Ad agitare la carne in nuove geometrie metalliche è, ancora una volta, la rabbia, scaturita dalla morte di un figlio come in The Body Hammer. E, di nuovo, l’unico esito possibile del superamento del corpo è la rottura dei confini dell’identità corporea: la fusione tra il protagonista e l’antagonista che, per la prima volta, non ha esiti apocalittici.
The Bullet Man è una variazione sul tema di Tetsuo: parlare di sequel, o di reboot, rischia di semplificare un dialogo tra queste tre opere che ha una natura più emotiva e stilistica che narrativa. I richiami formali e le esplosioni percettive richiamano, quasi inglobandoli, i due capitoli precedenti. Ancora una volta, Tsukamoto non esita a mettere in scena sequenze dalla grafia rapidissima, fatta di camere a mano e teleobiettivi che danzano come dervisci attorno alla carne dei personaggi. In particolare, la sequenza della prima trasformazione, con il titolo del film in sovraimpressione, è da antologia. Tuttavia, queste esplosioni formali sono più rare del solito, mentre uno spazio maggiore viene dato alla costruzione di un racconto filmico più tradizionale, fatto di complotti ed esperimenti militari segreti. Gli effetti speciali sono stati aggiornati rispetto agli anni Novanta, ma restano di fattura gustosamente analogica, artigianale. Il risultato è un simbionte di difficile descrizione, un film giapponese che gioca ad essere americano; Tsukamoto aveva in progetto, dopo The Body Hammer, di girare un film della saga negli Stati Uniti, e The Bullet Man è qualcosa che ci si avvicina molto.
Questa natura ibrida attraversa tutto il film, nei contenuti e nelle forme. Anthony è americano, mentre sua moglie è giapponese. Metà uomo e metà macchina, è destinato a confliggere con la sua nemesi (nuova incarnazione del feticista del metallo, interpretata, ancora una volta, da Tsukamoto stesso) e ad inglobarla nel proprio corpo. Narrativo ed astratto sono accostati, quasi in conflitto tra loro, e la narrazione procede con un ritmo volutamente irregolare. Se c’è una parola chiave che può definire l’intera operazione, questa è “sintesi”. Sintesi per tentativi, a volte reale, a volte illusoria: un ventaglio di tesi e antitesi, estrusioni e intrusioni, analogico e digitale, che procede per penetrazioni, impatti, traumi. Un incubo a occhi sbarrati che, a differenza dei primi due titoli della saga, sembra concludersi con un risveglio: il mutante e il feticista non si uniscono per diventare una macchina di morte o gli unici sopravvissuti di un’apocalisse, ma resistono – semi di ribellione in un mondo conforme – all’interno della metropoli popolata di colletti bianchi e anime perdute. Se non un’utopia, quasi un lieto fine.
The Bullet Man manca della furia iconoclasta dei primi due episodi di Tetsuo ed è appesantito da una trama non necessaria, ma la potenza delle sue immagini resta indiscutibile. Il dolore della perdita e la ricerca di un’impossibile sintesi sembrano permeare ogni singola inquadratura e farsi qualcos’altro: una esplorazione dell’indicibile e dell’incubo, ricerca necessaria per riemergere dall’oscurità della sala e ritrovare la magia sciamanica del cinema.