Tetsuo II: Body Hammer
Shin'ya Tsukamoto torna al suo esordio con un nuovo linguaggio per raccontare la trasformazione dell’uomo in macchina.
Dopo la parentesi di Hiruko The Goblin, opera vivacemente iconoclasta pensata per un pubblico più generalista, Shin'ya Tsukamoto ritorna alla figura di Tetsuo con l'urgenza di un poeta dai cui occhi sgorgano nuove, torbide visioni di un presente in mostruosa trasformazione verso un futuro disumano, o sovrumano. La pura visionarietà autoriale e i limiti di budget del capolavoro del 1989 si innestano in un nuovo corpo, produttivamente più ingombrante, in dialogo più serrato con le logiche ed estetiche del cinema di genere: Tetsuo II – Body Hammer, più che un sequel, è una variazione sul tema, una visione allargata.
Protagonista di Body Hammer è un impiegato, Tomoo Taniguchi (Tomorowo Taguchi), vittima di un esperimento per creare degli ibridi tra umano e arma. Il figlio di Tomoo viene rapito per accendere la rabbia del padre, necessaria alla trasformazione, ma la sua furia si scopre incontrollabile e con origini ben lontane e radicate.
Su questo spartito, tutto sommato semplice e convenzionale, Tsukamoto proietta i suoi fantasmi e costruisce un'opera indisciplinata e sospesa tra mille generi ed estetiche, non meno difficile da classificare del primo Tetsuo.
Per comprendere Tetsuo II è il caso di allontanarsi da Tomoo e dalla storia inscritta sulla superficie del film, per addentrarsi nel suo paesaggio. La vera protagonista è Tokyo, città-formicaio dove l'uomo si muove come un insetto, produce e accumula rovine ai suoi piedi. A svettare e dominare le inquadrature di Body Hammer sono i grattacieli, spesso inquadrati di sbieco e incombenti sugli uomini. Un altro vocabolo di questa grammatica urbana è la fabbrica, il capannone, il ventre di metallo che non sembra partorire altro che pezzi di ferro e protesi per un'umanità ormai perduta. Abbiamo poi le mura domestiche, qui meno predominanti rispetto al primo capitolo, ma sempre decisive: è qui che si svela il dramma di una coppia, ed è qui che le colpe dei padri ricadono sui figli. Infine, abbiamo i luoghi del consumo: la crisi che dà origine alla ribellione del corpo di Tomoo ha luogo in un centro commerciale (gli zombie di Romero sono tornati al lavoro), dove il figlio viene rapito e il suo corpo infettato, almeno in apparenza, con un agente mutageno. L'agente si rivelerà del tutto superfluo: la ribellione era già presente nel corpo, e la trasformazione di un impiegato senza qualità in una rabbiosa fusione di carne e metallo era solo questione di tempo e stimoli adeguati.
Tokyo, la città, l'acciaio che dimentica l'uomo: l'intera trilogia di Tetsuo è una cacofonia della città, dove alla voce univoca della poesia si sostituisce il ruggito delle macchine e lo stridìo di motori e ingranaggi. Non a caso, la capitale sembra assai povera di parchi e di natura, di curve naturali, persino di nuvole. Body Hammer è il luogo dove questa poetica urbana trova l'espressione più esplicita e palpabile. La città non si "risveglia", non si apre in accurato moto di ingranaggi: piuttosto, pare che la metropoli sia istupidita, abbacinata, alveare senza ape regina. L'uomo, assediato, è costretto a una dolorosa trasformazione per adattarsi al suo nuovo, indecifrabile ambiente. L’attenzione quasi ossessiva per l'estetica dei corpi maschili e la coreografia dei loro movimenti sembra una risposta a questa minaccia: il corpo deve essere una macchina in forma perfetta, un fisico d’acciaio figurato intorno a cui la macchina da presa può danzare.
Dall’acciaio figurato alla vera mutazione, in ogni caso, vi è un abisso difficile da superare: quello tra uomo e post-umano. Un salto traumatico verso l’ignoto. Anche questa volta, come nel primo Tetsuo, l'esplosione del corpo in estrusioni metalliche e bocche da fuoco è un atto rivoluzionario che richiede uno sguardo disumano, rapidissimo quanto analitico, che dispiega tutti i mezzi e le tecnologie del cinema: animazione a passo uno, montaggio sincopato, commento sonoro ai limiti del caos. Ad emergere è una nuova carne e un nuovo modo di metterla in scena; entrambi gli aspetti hanno delle conseguenze sul piano politico e su quello estetico.
Politico, perché il primo bersaglio di Body Hammer è il Giappone contemporaneo e l'uomo che ha prodotto. Gli atti di ribellione sono le uniche vie di fuga, apparentemente: fughe disperate, sotto forma di sette che complottano per distruggere il mondo e culti del corpo e del vigore che fanno da controcanto alla incontrollabile sessualità che era la cifra del primo film. Sembra di vedere il fantasma di Marco Ferreri dietro a questa apocalisse dell’umano e dietro alla disperante sequenza finale di Body Hammer, con una importante differenza: se nel Seme dell'Uomo l'umanità giungeva ad una fine insensata e inappellabile, la violenza de/rigeneratrice di Tetsuo sembra ciclica e inevitabile.
Per quanto riguarda l'estetica, l'incubo di Tsukamoto è un groviglio di Oriente e Occidente, modernità e orrore mitico. Il mostro di metallo non è, dopotutto, così diverso dai demoni e dalle creature della mitologia di ogni luogo, con l'importante differenza che la maledizione è qui causata dall'uomo e non dal divino. L'uomo cambia in modo incomprensibile, si maledice: siamo vicini ad Akira e a David Cronenberg, ma la maledizione dell'essere una creatura a metà tra l'umano e il "divino laico" dell'acciaio fa pensare, in questo secondo capitolo, anche alla tragedia di Robocop. O meglio, alle premesse e alle conseguenze di un mondo dove Robocop è possibile: la babele sociale, la perdita di controllo, la violenza liberatoria come unica risposta al mondo oltre la soglia di casa.
In una delle sequenze più visionarie di Body Hammer, Tomoo sembra impazzire mentre l'immagine si sovrappone a una palla di fuoco; in un'altra occasione, è lo stesso fotogramma ad incendiarsi e accartocciarsi. Nonostante una certa "normalizzazione" dello sviluppo narrativo a cui si è accennato, Tsukamoto non esita a sciogliere la leggibilità dello sguardo in un ribollire di immagini materiche e cellulari, che lo avvicinano, di nuovo, ai territori dell'arte astratta e del videoclip. La scelta del colore in luogo del bianco e nero, in questo senso, non fa che esaltare la natura febbrile, visionaria, di questo cinema: nei suoi blu e rossi saturi possono vivere solo fantasmi, rivelazioni, incubi.
Ed è in questa furiosa bellezza, in questo lungo grido in forma di immagini e sonorità stridenti, che Tsukamoto si rivela essere una delle voci più moderne del nostro tempo. Dietro alle maschere cyberpunk e all'orrore, l'umano palpita con una sincerità toccante e il suo dolore ci viene trasmesso con un’intimità quasi insopportabile. Tetsuo non è mai stata la storia di una “semplice” apocalisse, né quella di una utopica rinascita: è la cronaca dettagliata di una trasformazione dolorosa, il balletto meccanico di un occhio che ha perso l'innocenza e cerca nuovi sguardi o, quantomeno, nuovi schermi. L'Uomo di Ferro è un automa con la macchina da presa che danza sulle rovine e ci osserva, con un misto di pietà e sadica, infantile curiosità.