È il suo quarto lungometraggio. Ancora a scalfire le false sicurezze del reale, a rovesciarne i sensi, le sue ottuse proprietà, per far così emergere nuovi spazi identitari, un visibile assurdamente ribaltato, e quasi, qui – in un parassitario eppure stringente paradosso – comicizzato. Anche se non fa ridere, anche se innestato in un dispiegamento parahorror. Perché tra le premesse, più teoriche che drammaturgiche, alla base di Tokyo Fist di Shin'ya Tsukamoto c’è ancora un’ossessione, come sempre nel cinema dell’autore giapponese, persona notoriamente pacata e gentile e artista di violento furore immaginativo.
L’ossessione, qui, dei fratelli Tsukamoto, Shin'ya e Kôji, per una madre che sullo schermo perde però connotazioni autobiografiche e rispecchiamenti immediati e si trasforma in qualcos’altro: il regista, così, è l’interprete di Tsuda, assicuratore dalla vita piatta e priva di gioia, elementi che caratterizzano anche la relazione e la convivenza con la conciliante Hizuru (Kaori Fujii). La loro storia, che è il loro stare al mondo, viene stravolta da Kojima (Kôji Tsukamoto), ex compagno di scuola di Tsuda e boxeur semiprofessionista. I due uomini si incontrano casualmente dopo molti anni, dopo una promessa di gioventù che il primo non ha poi mantenuto mentre l’altro sì. Il motivo, all’epoca, era una donna e si rinnova oggi, anzi si ibrida, nella figura di Hizuru.
Questo Tokyo Fist non è lontano dal mostruoso di Tetsuo; ne è, se vogliamo, la maschera, la superficie ridicola, lo stato primario, un’ontologia e un’antologia drammaticamente dileggiate. È novecentesca l’alienazione di Tsuda, non potrebbe essere mai la stessa nel 2018; è prossima, piuttosto, al comico muto, quello contro l’ordine costituito e precostituito, ma non può essere giocosa, attiva, marionettistica, non può essere azione, performance, silenzio ed effetto, caos di un fantastico e di un irreale che si fanno beffa delle gerarchie e – anche magari solo temporaneamente – le sovvertono; non può essere improbabile, “sovrumana”, invincibile, non può essere immortale. Per questo, la violenza sul corpo, inflitta e autoinflitta, l’apparente gratuità, l’insensatezza di ogni gesto dei personaggi (dai tatuaggi ai piercing coi quali Hizuru, dopo il primo incontro amoroso con Kojima, comincia a plasmare una nuova sé, una nuova soggettività, agli allenamenti e ai combattimenti del nuovo Tsuda e di Kojima, i volti gonfi e sanguinanti), per questo, dicevamo, tutto ciò è sempre, in realtà, un dislocamento di senso, è una riscrittura del senso comune, un suo riversamento allucinato, una riscrittura politica delle forme concrete e del simbolico, del potere e dei ruoli (dell’Uomo e della Donna). Tsuda e Kojima sono in fondo diversissimi ma speculari, limitati, anzi delimitati, mentre la dinamo del desiderio, dell’effrazione, del capovolgimento sensoriale, sessuale, sociale, ideologico, appartiene tutta alla figura della donna, a Hizuru (progressivamente più bella e autonoma, imprendibile e incomprensibile nel suo sconvolgimento fisico).
È un saggio su un Paese, una cultura, un mondo, sul Giappone? Sì, come lo sono oggi, da tutt’altra prospettiva e autorialità, ad esempio, Un affare di famiglia di Kore'eda o, agli antipodi, la fantasia pop dell’Isola dei cani dello straniero Wes Anderson. È un film di un autore sul (suo) cinema? Sì, come sarebbe stato, anni dopo, mettiamo, il Cut del Naderi “giapponese” (bisogna cercare nello spazio tra il volto tumefatto del protagonista – nella finzione, un filmmaker – del regista iraniano e quello quasi ridotto alle sembianze di pupazzo idiota di Tsuda/Shin’ya Tsukamoto dopo la “lotta” – ma è forse l’unico amplesso che possono ancora possedere, che può ancora possederli – con Hizuru). È una messa in scena ripetitiva, espressionistica, “viziata”, che elimina il tragico, addizionando incompiutezze, sbandamenti stilistici, un’anarchica ma consapevolmente chiara riproducibilità di significanti e significanti, sangue che fiotta e solitudini violente. Il cineasta azzera i punti-limite, scrive, produce, realizza, monta, interpreta, allestisce il reale che opprime lo Tsukamoto uomo e “droga” l’artista. Tokyo Fist è sguardo politico, meccanismo comico, un documentario horror, un film che sa essere incredibilmente feroce e umanista, e dove, accanto a Cronenberg, potremmo perfino immaginare un remix tossico, folle, tra Tex Avery e Rocky Balboa.