La casa di mio padre risplende altera e luminosa,
è come un faro che mi chiama nella notte,
mi chiama e mi chiama ancora, così fredda e isolata,
splendendo al di là di questa scura strada
dove i nostri peccati giacciono impuniti.
Bruce Springsteen, My Father’s House
Probabilmente molti avranno sentito parlare di Jeff Nichols negli ultimi tempi. In concorso all’ultimo festival di Cannes, con Mud, sembra non aver deluso le attese. Da non molto vi avevamo parlato anche del suo secondo film, Take Shelter, probabilmente il meno interessante, una parentesi commerciale, con intenti finalizzati alla conoscenza del grande pubblico e pretese psicoanalitiche quanto mai superate. Eppure l’esordio cinematografico di Nichols è qualcosa di completamente diverso dalle sue due opere successive. Shotgun Stories (2007) è un film di una bellezza estrema, un’opera sincera che ricorda certe ballate solitarie di Springsteen ai tempi di Nebraska, ed in particolare Highway Patrolman, testo che ha ispirato un altro esordio alla regia, quello di Sean Penn che nel 1991 gira Lupo Solitario.
Associare il film di Nichols ad Highway Patrolman può sembrare una forzatura, ma basta questo piccolo commento di Springsteen per comprendere l’analogia: “È una canzone sulla famiglia, sui vincoli di sangue, che parla di quanto sia difficile, a volte, scegliere quali sono le cose giuste da fare quando si tratta delle persone che ami”. Shotgun Stories è proprio questo, la storia di un vincolo di sangue, quello tra due fazioni di fratelli, legati entrambi da un padre in comune. Sarà la morte di quest’ultimo a generare l’odio che si trasformerà presto in violenza, provocando morti e dolore. I personaggi del film sembrano quindi muoversi in nome e per conto di una figura paterna che è assente per tutto il racconto, ma che incombe minacciosa su entrambe le famiglie. Il nome del padre è quindi un fardello, un peso troppo grande da sostenere. È la sua doppiezza che ha generato riflessi di un mondo inconciliabile e tormentato.
Il ruolo sociale del padre sembra essere eternamente generatore di conflitti, e rischia di soffocare i figli.
Probabilmente Nichols, a differenza di Take Shelter, riesce a condurci in un mondo psicanalitico molto più complesso ed articolato. In questo film non ci troviamo di fronte a complessi edipici non superati, quanto alla totale introduzione dei personaggi nel simbolico. È quella che Lacan chiama “Nome-del-padre”, o metafora paterna, ossia il passaggio dal desiderio (incestuoso) per la madre all’identificazione completa con la “Legge del padre”. Tuttavia la figura paterna, nel momento in cui viene a mancare, riapre inevitabilmente ferite mai rimarginate. Non è un caso che il film si apra sulle profonde cicatrici di Son Hayes, interpretato da Michael Shannon, attore feticcio di Nichols, che porta sulla schiena per via di un colpo di fucile, sparato appunto da un fratellastro. Queste ferite rappresentano dunque le colpe di un uomo che non merita nemmeno una degna sepoltura, perché il padre “non era un buono”, ma solo un traditore disposto a lasciare i figli e la moglie per un’altra famiglia.
Eppure una domanda sorge spontanea. Perché mai le colpe dei padri devono diventare motivo di conflitto per i figli? A questa domanda Nichols non sembra riuscire a dare una risposta, anzi nel film, in certi momenti, le scene di violenza tra le due compagini sembrano immotivate, o meglio attribuibili all’inevitabile selezione, darwiniana, della specie, regolata dalla legge del più forte. Tuttavia, il film ci indica una soluzione al quesito, attraverso un elemento importante, quale appunto il concetto di famiglia, intesa come proprietà privata. Più volte, infatti, i personaggi del film reclamano ai fratellastri di non introdursi nella loro proprietà. Il conflitto, la lotta è concepibile solo al di fuori di questa.
Bisogna ricordare in proposito un fatto importante, come ci ricorda Friedrich Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: il concetto di famiglia e il concetto di proprietà privata, in origine non esistevano, ma nascono contemporaneamente in concomitanza all’evoluzione della produzione dei mezzi di sussistenza. La famiglia in un primo momento è concepita come “famiglia di gruppo” o gens (clan, tribù) dove è centrale il matriarcato (madre, figli, fratelli) sino ad arrivare a un nuovo tipo di famiglia, quella patriarcale, nata nel momento in cui aumentano le ricchezze rafforzando la posizione dell’uomo, producendo di conseguenza il concetto di proprietà privata, fondata sulla trasmissione dei beni paterni ai figli.
Nel film di Nichols è presente un fatto interessante. Quando viene a mancare la figura paterna in entrambe le famiglie vi è una sorta di ritorno primordiale alla “famiglia di gruppo”, dove le donne, ovvero le madri, in un primo momento diventano capifamiglia. I figli invece sembrano assumere il ruolo di clan, mossi da istinti naturali e di sopravvivenza. Il conflitto fra le due fazioni di fratelli, però, mosso dal nome del padre, restituisce immediatamente alle due famiglie un’istanza di patriarcato, fondata appunto sul concetto di proprietà privata e trasmissione dei beni paterni ai figli, soprattutto i primogeniti. Sono quest’ultimi a garantire la salvaguardia della famiglia. Ma se si mettono di mezzo i fratellastri, le cose si complicano, perché entrambi si muovono sulla stessa “proprietà privata”, fondata dal padre.
Una nota finale la merita la splendida colonna sonora, con alcune canzoni della band country rock di Memphis, i Lucero, degna di essere paragonata alla musica di Into the Wild composta e suonata da Eddie Vedder.