Speciale MUBI / Hunger

di Steve McQueen

Rivedere Hunger e rivedersi spettatori in un cinema di Londra nel 2009.

Hunger  Steve McQueen

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

A Londra c’è un piccolo cinema dietro alla centralissima Leicester Square. Nel 2009 i biglietti costavano, credo, tre sterline, a febbraio faceva molto freddo, e al Prince Charles proiettavano Hunger di Steve McQueen. Prima di Shame, 12 anni schiavo, e del sottovalutato Widows, quello in sala nel 2009 era il lungometraggio d’esordio di un già acclamatissimo artista multimediale, con un ancora poco conosciuto attore tedesco-irlandese (Michael Fassbender) destinato – come si dice in questi casi – a una luminosa carriera.
Il film racconta lo sciopero della fame del leader dell’Ira Bobby Sands, morto in cella nel 1981. Il Prince Charles Cinema era il mio cinema di riferimento a Londra. Approfittando del prezzo basso e dei buonissimi dolci che vendevano lì dietro nella Chinatown cittadina, ci trascinavo cinefili più o meno consapevoli ["E da allora ho iniziato a stare solo nelle prime file per avere lo schermo unica cosa visibile (colpa tua)”, mi ha scritto un’amica ricordando quel giorno. È un’ossessione di noi cinefili, quella di sederci solo nelle prime file – sia mai che qualcosa, anche impercettibilmente, ci distragga dallo schermo. Amicizie si sono formate e rotte intorno a questo principio per me inalterabile]. Il Prince Charles Cinema se ne stava, e ancora sta malgrado la chiusura dovuta alla pandemia da Covid-19, lì da più di 30 anni, senza nessuna pretesa di fighettaggine, di artificiosa cinefilia hipster tanto in voga a New York City [al Metrograph, vicino Chinatown, 15 dollari ingresso, pubblico che ride senza senso alle scene più dolorose de L’avventura. Gli hipster non prendono niente troppo sul serio, a parte loro stessi]. Pare sia anche il cinema preferito di Quentin Tarantino nel Regno Unito: «The Prince Charles Cinema is everything an independent movie theatre should be. For lovers of quality films, this is Mecca». Abbiamo finalmente qualcosa in comune, Quentin and I.

Pensavo, nel febbraio del 2009, all’ironia di vedere un film sull’Irlanda, sui Troubles, su (forse) l’ultima rivolta postcoloniale sul suolo europeo, nel cuore della capitale del più vasto impero della storia umana. Qualche mese dopo, quando l’amico irlandese-americano vide il murales di Bobby Sands a Roma, a San Lorenzo, rimase molto confuso, non capendo l’internazionalismo, la vicinanza con i popoli in lotta, i simboli sui muri. Ne scrissi, del film non dell’internazionalismo, per Zabriskie Point, una rivista online che non esiste più, pioniera delle riviste web di critica cinematografica, palestra di scrittura per tante e tanti che lavorano oggi in vario modo nel cinema – bisognerebbe chiedersi perché le belle riviste web di cinema hanno i titoli inglesi di film girati da non statunitensi sul suolo statunitense, come Zabriskie Point o Point Blank. Lamentavo che forse nessuno avrebbe visto Hunger in Italia, dato che non aveva ancora una distribuzione (ed effettivamente uscì solo nel 2012, dopo il successo di Shame), chiedendomi retoricamente “a chi interessa vedere un’ora e mezza di sofferenza rinchiusa nelle quattro mura di una prigione, a chi interessa vedere un corpo rigoglioso e forte che piano piano sullo schermo diventa esile, morente, spento?” Usavo parole come “bellissimo” per definire un film, “impegnato”, tra virgolette, e dicevo che era “Cinema con la c maiuscola” (espressione che ora mi fa rabbrividire). Deduco dalla recensione di allora che il film è diviso in tre parti: una sorta di lunga introduzione dove si dettaglia la vita dei prigionieri dell’IRA nelle carceri inglesi; il meraviglioso e toccante dialogo centrale tra Bobby Sands e il prete (da vedere, potendo, con sottotitoli, almeno che non siate irlandesi); e la parte finale in cui si vede il corpo di Sands/Fassbender lentamente logorarsi. “Lo stile è asciutto, i primi piani sono quasi un manifesto stilistico, servono a scavare dentro i corpi, a renderci quanto mai partecipi di quello che sta succedendo”. Pare funzionasse, visto che dicevo che il film faceva uscire dal cinema “scioccati, pieni di rabbia, ma consapevoli di aver visto un film di altissima qualità”. Se scavo nella memoria però emergono anche le sequenze oniriche che forse distraggono, un po’ forzate e formali, ma ancora lontane dall’estetismo borderline voyeuristico di 12 anni schiavo.

Hunger è su MUBI. Guardatelo, il me del 2009 lo consiglierebbe dicendo che è asciutto, bellissimo e impegnato.

A Maria Carla, in amicizia

Autore: Luca Peretti
Pubblicato il 12/08/2020
Gran Bretagna, Irlanda 2008
Regia: Steve McQueen
Durata: 96 minuti

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