Halloween H20 – 20 anni dopo
Diretto da Steve Miner, H20 riprende le redini della saga e mostra le ripercussioni psicologiche dell’orrore, restituendo così attendibilità alla minaccia rappresentata da Michael Myers.
Haddonfield, 1963.
Durante la notte di Halloween, l’antico capodanno celtico di Samhain, un bambino imperscrutabile di nome Michael Myers uccide a sangue freddo sua sorella maggiore, prima di essere rinchiuso in stato catatonico nell’ospedale psichiatrico di Smith Groove. Qui è tenuto sotto stretta sorveglianza dal suo psicologo: il Dott. Samuel Loomis. Dopo quindici anni di quiescenza, il 31 ottobre del 1978, il giovane psicotico si rianima allo scoccare della mezzanotte, evade dalla sua gabbia e torna nella sua città natale, sfregiando per sempre l’esistenza dell’ignara sorella minore, Laurie Strode. Da quella fatidica notte nessuno ha avuto più sue notizie perché nel frattempo la ragazza ha cambiato identità trasferendosi in un’altra città, lontana da ciò che Haddonfield rappresenta per lei. Il suo nome adesso è Keri Tate ed è la preside di un prestigioso college in California, dove finge di condurre un’esistenza normale insieme al figlio adolescente John (Josh Hartnett) e alla sua fidanzata (Michelle Williams). Nel 1998 tutti credono che Laurie Strode sia morta e che riposi in pace – ed in un certo senso è così – tranne il suo antico persecutore, riemerso anch’esso dalle ombre del passato per concludere quello aveva lasciato in sospeso. Ma Laurie stavolta è pronta ad accoglierlo.
Vent’anni dopo La notte delle streghe, fallito l’ennesimo tentativo di coinvolgere John Carpenter nel ruolo di regista/produttore, ironia vuole che spetti al veterano del cinema horror Steve Miner (il “padre” del Jason Voorhes di Venerdì 13) riprendere in mano le redini della saga, fiaccata da quattro lustri di oblio cinematografico e controversie legali. Per farlo decide di ripartire dalle origini, cancellando ipso facto le storie dei sequel successivi, con tutte o quasi le loro incongruenze logico-narrative. Con la scomparsa improvvisa di Donald Pleasance, l’idea dei produttori della Dimension/Miramax Films (che avevano acquisito i diritti del franchise nel 1995) è quella di celebrare l’anniversario del primo iconico episodio in grande stile, recuperando le influenze culturali e le suggestioni stilistiche degli esordi per raccontare il finale catartico che tutti i fan stavano aspettando: la resa dei conti tra Laurie e Michael, reclutando l’unica protagonista possibile per la parte: Jamie Lee Curtis.
Il ritorno dell’attrice nel ruolo che l’aveva resa celebre è sicuramente l’aspetto più convincente ed originale dietro l’operazione celebrativa di Halloween H20 – 20 anni dopo, tanto da rivelarsi profetico alla luce del suo nuovo ingaggio nel film diretto da David Gordon Green uscito nel 2018. Questo perché il personaggio della Curtis – anche a distanza di tempo – resta una costante imprescindibile della saga di Halloween, una garanzia di credibilità, soprattutto da quando non è più l’ingenua ed insicura adolescente sotto shock che avevamo conosciuto nel 1981 ma una donna adulta ed emancipata, sopravvissuta ai demoni dell’alcolismo e ai fantasmi dell’inconscio. Oltretutto, in questa sua terza apparizione nel franchise la ritroviamo nelle vesti di madre iperprotettiva, pronta tanto a empatizzare quanto a imbracciare un’ascia – a seconda della necessità – per difendere la sua famiglia e liberarsi della sua metà oscura.
Finalmente Laurie Strode-Jamie Lee Curtis scagiona la saga da ogni accusa di misoginia, sovvertendo uno degli stereotipi più radicati del cinema slasher (quello che relega sempre la donna a vittima designata, compagna remissiva o fanciulla da salvare) e guadagnandosi un posto di rilievo sul podio delle eroine dell’action contemporaneo, accanto a figure del calibro di Ripley-Sigurney Weaver e Sarah Connor-Linda Hamilton.
Da questo punto di vista Miner è il primo a riflettere e a mostrare sullo schermo le ripercussioni psicologiche che quella notte del 1978 ha avuto sui uno dei suoi protagonisti principali, e di conseguenza a restituire attendibilità alla minaccia rappresentata da Michael Myers, qui in veste di spettro di un’ansia condivisa, persistente e intergenerazionale. Il punto debole del film si presenta quando la storia – per esigenze commerciali – vira sulle disavventure drammatico/adolescenziali del figlio di Laurie e del suo gruppo di amici, volti noti al pubblico dei teenager di fine anni novanta (Michelle Williams, Joseph Gordon-Levit) alle prese qui con il golem dello slasher. Così la tensione old fashioned dello scontro tra i due protagonisti principali, puntellato di brillanti allusioni al film di Carpenter, rischia di passare pericolosamente in secondo piano in favore di un ammiccante teen-horror nato sulla scia del successo planetario della saga ultra pop di Scream (complice il coinvolgimento produttivo dello sceneggiatore più in voga di quel tempo momento Kevin Williamson). Tuttavia, nonostante numerosi difetti, ciò che rende affascinante Halloween H20 è la volontà e capacità di racchiudere in unico film – in parte sequel, in parte reboot – l’estetica pluriventennale del cinema slasher che ha reso la saga di Halloween nel bene e nel male il cult che tutti conosciamo: a cominciare dall’influenza di classici come Psyco (emblematico il cameo di Janet Leigh) passando per il boom degli anni ‘80 (la competizione tra Halloween e Venerdì 13) fino al puro divertissement metacinematografico mutuato dalla saga di Wes Craven. Come una lettera d’amore, sgrammatica ma sincera, scritta dal fan Steve Miner al suo idolo di sempre: Michael Myers.