Storia di una ladra di libri

Il linguaggio come gesto salvifico è alla base de Storia di una ladra di libri: imparare a leggere e scrivere restituisce all’individuo la possibilità di affermarsi in quanto essere umano e in tal modo lo libera dalle gabbia dell’ignoranza mentale. Per quanto culturalmente, forse per la sua complessità strutturale, si sia affermato con maggior prestigio l’atto della lettura/scrittura quale conoscenza del mondo, ciò di cui l’uomo ha bisogno per sopravvivere spiritualmente è di una forma di comunicazione qualsiasi, purché gli permetta di esprimersi. A volte è la musica, a volte l’arte, altre volte metodi più singolari; nel caso della piccola Liesel è la lettura, che all’inizio possiede il sapore della rivendicazione sociale. Arrivata in un piccolo paesino tedesco per essere adottata da nuovi genitori – dacché la madre, comunista, è dovuta fuggire – la bambina, quasi analfabeta, soffre l’umiliazione d dover rivelare di fronte a tutta la classe le proprie carenze scolastiche e pertanto tenta subito di rimediare, aiutata dal dolcissimo padre adottivo Hans, un pigro e buontempone Geoffrey Rush costantemente rimbrottato dalla severa moglie (Emily Watson). Insieme danno vita a un abbecedario casalingo sui muri della cantina, ma ogni parola, in quanto nuovo significato, allarga gli orizzonti dello sguardo di Liesel fino a farle comprendere che il mondo in cui vive non è un posto meraviglioso. Siamo infatti nel 1939, alle soglie dello scoppio della guerra, e per quanto la bambina sia felice di essere come tutti gli altri, di cantare inni nazisti e partecipare alle parate, nel momento in cui assiste al rogo di libri, ognuno portatore di quelle storie che l’hanno salvata dalla sua solitudine, capisce che qualcosa non torna. Poi, una notte, bussa un ragazzo alla porta: si chiama Max, un ebreo in fuga dai rastrellamenti, figlio dell’uomo che salvò in guerra Hans, che per riconoscenza pur rischiando tutto si sente in dovere di nasconderlo in cantina. Il ragazzo, affamato, malato, barricato in casa lontano dalla luce del sole, si aggrappa alle parole di Liesel, invitandola a descrivere per lui tutto quel mondo esterno dal quale si è dovuto separare. Cosa fare allora, per trovare nuove parole e racconti, se non…mettersi a rubare libri?

In Storia di una ladra di libri si fanno le cose in grande: la voce fuoricampo è niente poco di meno che la Morte in persona, abbondano le sequenze drammatiche e le musiche strazianti, e certamente la presenza di due grandi attori come Rush e Watson aumenta il prestigio della pellicola. Forse però il tono troppo edificante del film e la sua eccessiva ricerca di commozione privano di autenticità una storia che solo a tratti lancia sprazzi di reale emozione, anche grazie all’appassionata interpretazione dei suoi protagonisti. Un prezioso sguardo laterale è proiettato sulla natura della consapevolezza del popolo tedesco rispetto alla situazione in cui si stava cacciando col Nazismo: una lettura che fra perfetta aderenza o totale innocenza sceglie la paura e l’ignavia sulla falsariga de “Il più forte del momento è X, X detiene il potere, facciamo come dice lui e staremo meglio anche noi”. Nessuna militanza patriottica, solo la pura legge della convenienza, sulla cui indifferenza morale si sono fondati i peggiori crimini dell’umanità. Lo sguardo di Liesel che guarda passare davanti a sé cumuli di libri sul punto di bruciare, o file di disperate destinati al treno della morte, il suo dibattersi fra il tacere e salvarsi – che è anche il dilemma del padre adottivo – o parlare e rischiare tutto, racconta il dramma dell’uomo medio che deve scegliere fra una sopravvivenza mediocre o un’esistenza autentica. Quest’ultima spesso non viene perdonata dai più forti, che la stroncano sul nascere, ma se il linguaggio è salvezza, finché ci saranno parole ci sarà speranza.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 17/08/2014

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