La teoria del tutto

Il racconto edulcorato e pretenzioso della storia d'amore da Stephen Hawking e Jane Wilde

Il genio afflitto, incompreso, tradito dalla natura o dall’uomo, è uno dei temi tipici del cinema occidentale, hollywoodiano in particolare. Il talento può essere l’anticamera di una maledizione di solitudine e disumanizzazione, come nel cecchino Chris di Clint Eastwood; l’altra faccia di una diversità che è anzitutto alterità di pensiero e intelletto, come nel Turing di Tyldum; o ancora la beffarda controparte di una malattia genetica data per terminale, come nel caso di Stephen Hawking e del film di James Marsch. Ma se American Sniper, pur sfiorando l’agiografia, riflette sullo statuto dell’eroe nel mondo, The Imitation Game e questo La teoria del tutto sono due facce della stessa mediocrità, artefatti poveri di ingegno e passione fedeli a quel filone che sotto l’ombra dell’Oscar intreccia genio e condanna, e di cui A Beautiful Mind e Il discorso del re rappresentano i due poli dello spettro. Da una parte la regia invisibile dal respiro teoricamente classico, dall’altra le intemperanze autoriali di uno sguardo che proclama la sua esistenza costruendo impalcature artificiose. Il risultato è il medesimo vuoto, ma se almeno il filone Tyldum/Howard ha dalla sua onesta e pulizia di intenti, il partito dei vari Tom Hooper e Marsh risulta ancora più irritante, imbellettato com’è di velleità registiche e autoriali.

Tratto dall’autobiografia di Jane Wilde, ex moglie di Hawking, La teoria del tutto prende il suo nome dal desiderio mai sopito dello scienziato inglese di individuare un sistema capace di unire i due mondi della fisica contemporanea, la quantistica e la relatività, così da includere in sé l’origine e la natura di tutto l’universo. Al suo contrario però il film si accontenta di tratteggiare la versione edulcorata della storia d’amore tra Jane e Stephen, giovani studenti di Cambridge prima, marito e moglie di un matrimonio apparentemente impossibile dopo. Oltre il minimo sindacale non trovano spazio le scoperte scientifiche dell’uno o le passioni personali dell’altra, tutto quello che conta è la loro relazione. Così del loro amore ripercorriamo le varie tappe e tentennamenti, fino all’inaspettata conclusione di alcuni anni fa, dopo la quale ciascuno degli ex coniugi troverà una nuova strada. Tuttavia quello che poteva essere un viaggio attraverso la vita all’insegna della determinazione, dell’amore e del genio, diventa a conti fatti un pamphlet davvero povero, reso ancor più fastidio dagli imbellettamenti autoriali di Marsh.

Se nel suo precedente Doppio gioco le sue immagini soffuse e fredde davano vita ad un thriller sospeso, algido, qui l’effetto è contrario, tutto viene caricato ed avvolto in carta dorata, edulcorato oltre ogni limite. Non a caso il film si accende leggermente solo in quei brevi momenti in cui vengono suggeriti gli aspetti più torbidi e difficili della vicenda, ma ogni immagine è troppo ricercata, ogni luce troppo accuratamente brillante per rendere credibile qualunque cosa che non sia un racconto edificante e giusto e pacificatorio.

Inutile sottolineare la bravura dei due protagonisti, Eddie Redmayne e Felicity Jones del resto offrono due prove davvero notevoli ma attorno a loro ogni cosa è troppo confezionata per permettergli di vibrare davvero. Marsch rincorre il racconto genuino di un amore oltre ogni sfida, ma è troppo impegnato nella ricerca della bella immagine per rendersi credibile ed efficace. La teoria del tutto appartiene in definitiva a quella tipologia da Oscar che conosciamo bene, e di cui rappresenta la versione autoriale e fintamente colta, che scambia il formalismo con l’autentica profondità estetica, e la stucchevole edulcorazione con la vera dolcezza. Se si cerca il racconto di una storia d’amore all’insegna della malattia meglio, molto meglio, tornare all’amore che resta regalatoci da Gus Van Sant.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 15/01/2015

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