Suoni dalla città è l’ennesimo documentario in cui la casa di produzione Zenit Arti Audiovisive ci dimostra la sua grande capacità d’essere sempre inserita appieno nella società e nel quotidiano, andando a pescare con perspicacia e fiuto quegli argomenti che possono o potrebbero dimostrarsi significativi per la nostra realtà. La capacità quindi di cogliere, o forse intuire, il momento giusto in cui entrare in azione per registrare e documentare novità, situazioni e movimenti a volte ancora sotterranei, che professano però di poter crescere notevolmente grazie alle loro potenzialità. E Suoni dalla città è un documentario che non esula affatto da questo iter, anzi potrebbe esserne facilmente elevato a paradigma, nel suo indagare con occhi curiosi e attenti il fenomeno italiano dell’hip hop soffermandosi a riflettere sulle motivazioni della sua nascita, i suoi perché e la sua ragion d’essere.
A questo punto, ed appare più che lecito, ci si potrebbe domandare in cosa consista la sopracitata abilità intuitiva attribuita con enfasi alla Zenit. L’hip hop italiano rappresenta al giorno d’oggi una chiara e precisa realtà, ormai consolidata e conosciuta anche da chi è estraneo a questo campo, e di conseguenza rappresenta un movimento oramai tutto fuorché sotterraneo, legato anzi, nei casi più commerciali, a solide leggi di mercato. La domanda quindi sorge logica, e non ci sarebbe nulla da obiettare a tal riguardo, se non fosse per il fatto che Zenit si propone di girare questo documentario non in tempi nostrani, ma piuttosto la bellezza venti anni fa; nell’ormai lontano 1992. Ed è a questo punto che appare palese, per chiunque mastichi un po’ di hop hop (italiano) e ne conosca un minimo la storia, la grande intuitività della Zenit, che si prefigge di girare un documentario su una cultura su cui nessuno, ancora, aveva posto accuratamente l’accento.
1992: un anno in cui in Italia la cultura tutta sotterranea dell’hip hop cominciava a crescere e ad acquisire una sua identità, uscendo finalmente da quello stato embrionale e sperimentale in cui era stata racchiusa per tutti gli anni ’80. Anni, questi, in cui l’hip hop comincia a slegarsi dal discorso delle Posse, dei centri sociali e dalle tematiche puramente politiche, per approdare finalmente a una nuova espressione di sé, maturata attraverso una fondamentale presa di coscienza.
1992: lo stesso anno in cui gli Aereoplanitaliani rimasero 30 secondi “Zitti” in silenzio (come da titolo della canzone) al Festival di Sanremo; mostrando al grande pubblico un altro rap, quello vero, certo diverso dal fenomeno tutto commerciale di un certo Lorenzo Cherubini alias “Jovanotti”. Così con questo documentario, tra l’altro preziosissimo, Zenit ci mostra tutto questo, affondando la sua videocamera in questa cultura giovane e in piena crescita, girovagando senza posa tra concerti, centri sociali, club, o residenze degli artisti stessi. Con una freschezza e una genuinità d’altri tempi (i nostri ormai sono corrotti dal mercato) la macchina da presa sfila tra i volti dei grandi padri del hip hop italiano quali Assalti Frontali, Frankie Hi’NRG, The Next Diffusion, African Outlaws, THC, solo per citarne alcuni.
Un viaggio frenetico, girato giustamente con uno stile da videoclip musicale, che va alla ricerca di personaggi, situazioni e personalità che rappresentano e che sanno/possono spiegare cosa e quali siano i principi e gli ideali di questa nuova cultura; principi o punti focali che vengono messi in evidenza di continuo dal passaggio di incessanti didascalie, che fermano come puntine sulla lavagna i punti chiave della questione, le regole del gioco. A vederlo oggi, a distanza di vent’anni, questo documentario appare una perla rara sul discorso dell’hip hop italiano, una perla immersa in un mare in cui cullarsi dolcemente nei ricordi di un passato, del nostro passato. Un tuffo all’indietro verso le origini, in cui l’uso in video del bianco e nero, delle tonalità seppia sovraesposte o in negativo, rimanda senza scampo a quell’ormai classico videoclip girato sulle rime di Aspettando il sole di un Neffa d’altri tempi, anticipato però da Zenit di ben quattro anni. Una Zenit, dunque, che immortala un periodo storico e d’importanza capitale per l’hip hop italiano, ancora lontano dalle prime registrazioni e dai primi successi discografici, che saranno ottenuti solo alcuni anni più tardi; anni in cui il fenomeno comincerà ad allargarsi a macchia d’olio.
Fenomenale nel documentario una delle ultime sequenze, girata in puro stile urbano, in cui gli African Outlawz, The Next Diffusion e THC sfoggiano le loro abilità metriche in freestyle, appollaiati su un terrazzo che si affaccia sulla città. Un ritmo ruvido e coinvolgente cui nemmeno la macchina da presa può sottrarsi, finendo per traballare e scomporsi a tempo di rap, scossa dal flow di solide rime incastonate una dietro l’altra; impossibile rimanere immobili, e come direbbe un certo Busta Rhymes, è d’obbligo “Break ya neck”.