L'immortale (Blade of the Immortal)
Un resoconto dal Trieste Science+Fiction sul centesimo film di Takashi Miike, adattamento sanguigno e divertito del manga di Hiroaki Samura.
Per la versione italiana ha promesso più violenza e più sangue, perché quella che viene presentata al Trieste Science+Fiction Film Festival è una versione di L'immortale (Blade of the Immortal) edulcorata per il mercato giapponese: ad annunciarlo è il portavoce di Takashi Miike, il guru del cinema giapponese giunto con questa trasposizione dell’omonimo manga al suo centesimo film c.a.: la scelta è dovuta al tentativo della produzione di evitare una restrizione della distribuzione ai giovani, i potenziali maggiori fruitori dell’opera, in quanto appassionati del materiale di partenza cartaceo.
Quello che capita una volta usciti dalla sala è però di trovarsi a sorridere perché, tra decapitazioni, mutilazioni, lacerazioni, accoltellamenti, scontri corpo a corpo, lo spettatore perde il conto delle uccisioni truculente che vede messe in scena e si lascia andare alla caleidoscopica rappresentazione – prima in bianco e nero, poi a colori – di una violenza meno estetica ed eccessiva di quella a cui il regista giapponese aveva abituato i suoi aficionados, ma contemporaneamente giocosa e leggera, autosufficiente proprio in quanto violenza. Violenza per la violenza.
La storia di Manji, un ronin reso immortale da un verme magico che sostiene il suo organismo pluricentenario ricostruendone i tessuti e ricucendo ogni tipo di ferita, è nell’adattamento di Miike una non-storia che centellina la sua trama tra gli sparuti inserti di stasi che separano una carneficina dall’altra, solitamente costruita sulla struttura “uno vs tutti” ma che, nella parte centrale, non disdegna il duello, l’uno contro uno ad oltranza tra il protagonista e gli uomini che deve uccidere. Il pubblico viene a sapere in queste brevi frazioni commentative che Manij è stato assoldato da Rin Hasano, una giovane donna, perché possa vendicare la morte del padre uccidendone gli assassini: ma poco importa, agli spettatori, a Miike, alla produzione. I legami famigliari del protagonista e il dolore centenario causato dall’assassinio della sorella (casus belli dell’iperviolenza rancorosa di Manji) vengono relegati in secondo piano rispetto al manga: l’intento di Miike è divertire e divertirsi col paradosso, con la parodia della tradizione orientale dei chambara, regalando così inconsciamente una preziosa lezione a quelle frange dei superhero movies occidentali e dello sci-fi incapaci di considerare come motivo d’orgoglio la propria natura di divertissement, rendendo gravosi i toni con un’inutile quanto posticcia filosofia spiccia.
Infatti, in contraddizione con parte della filmografia del regista – Audition su tutti – si potrebbe usufruire di Blade of the Immortal come si usufruirebbe di un concerto di musica elettronica. La violenza superficiale, catchy, diventa motivo di esaltazione e di euforia, una costante di sottofondo mentre l’omicidio diviene una pulsazione isocrona che, quando assente, crea dolore, assenza, la percezione di una mancanza.
Concentrarsi sugli aspetti ritmici e ludici del film non è quindi un approccio necessario, quanto un condizione inevitabile fomentata ciclicamente dalle penetrazione dei pugnali nelle carni, dalle morti sempre più fantasiose, dalle parti del corpo che si frantumano e vengono amputate per poi riassemblarsi, nonché da quelle morti che restano sullo sfondo, in fuori campo, e che vengono evocate dal sonoro ogni qual volta che un samurai si posiziona di fronte alla telecamera o che gli oppositori del protagonista sono talmente tanti (talvolta il numero rasenta le migliaia di unità) che a Miike non è dato nemmeno il tempo per inquadrare la violenza perpetrata, annaspante in un circolo virtuoso di sangue, urla e katane.
Alla luce di tutto ciò, le scuse di Miike per l’eccessiva compostezza del film sembrano il simpatico preludio ad un cut per il mercato occidentale ancor più galvanizzante.