First Love
Tra i migliori Miike degli ultimi anni, quello presentato a Cannes 2019 è un compendio cinematografico del suo autore in cui torna il primo amore per la yakuza e un genere reinventato cento film fa.
Il primo amore di Monica, una ragazza tossicodipendente, vittima di allucinazioni e costretta a prostituirsi per saldare i debiti del padre, non è Leo. Lui è un boxeur talentoso a cui è appena stato diagnosticato un tumore al cervello che incolpa per una recente, sofferta sconfitta. Quando, lungo una strada al neon di Tokyo, Leo vede Monica inseguita da Otomo (un poliziotto corrotto che ha concepito un articolato piano per il contrabbando di droga con uno yakuza), decide repentinamente di aiutarla mettendo l’uomo ko con un pugno. Monica, incredula e spaventata, lo scambia per un vecchio compagno di liceo, il primo amore, appunto. I due scappano insieme e si spalleggiano per sopravvivere alla notte: lei è assillata dalla figura paterna, lui è granitico, per niente intimorito dal pensiero della morte. Lei ha bisogno di essere difesa dalla Yakuza, lui di dare protezione e riscattare quella sconfitta nel match che tanto lo ossessiona, recuperando la dignità che ha perso verso se stesso.
La trama di First Love di Takashi Miike, presentato a Cannes 2019 nella sezione Quinzaine des Rèalisateurs, si gioca attorno a queste due umane, calde caratterizzazioni dei personaggi principali e costituisce uno dei migliori lavori del regista giapponese degli ultimi anni (insieme all’inconcepibilmente sottovalutato e poco dibattuto L’immortale), un’opera iper-cinematografica dentro alla quale convergono, tout court, come sempre, forme, stili, temi differenti e una tenera nostalgia per il cinema del Miike che fu. Il primo amore non è infatti solo quello della protagonista (un amore che tornerà nel finale del film come atto di speranza) ma è anche quello del regista che, dopo aver affrontato praticamente ogni genere, dal fantasy, al thriller, all’horror, pur restando fedele al suo stile schizofrenico e proteiforme attraverso una filmografia che vaglia a ogni nuovo tassello tutto lo scibile cinematografico, torna alle radici, al suo primo amore, a quella Yakuza che affollava quasi tutte le sue prime produzioni per l’home video (quindi, circa, cento film fa) e anche uno dei suoi primi film di successo, Dead or Alive (1999), pellicola costruita attorno alla lotta tra due yakuza che ha dato vita ad altrettanti sequel.
First Love si fa summa del percorso cinematografico di Miike, muovendosi brutalmente dalla violenza iperbolica, con le sue fontane rosso carminio e le teste mozzate ancora in grado di battere le palpebre, a delle brevi stasi riflessive, concedendosi persino un inserto animato policromatico e condensando così il già citato Dead or Alive ma anche Audition, Ichi the Killer, Zebraman e via dicendo. Proprio per questa sua caratteristica di contenitore nostalgico, il film ci interroga non tanto sul suo rapporto con una realtà che vada oltre al film, quanto sulla posizione critica da assumere nei suoi confronti: in relazione a un regista tanto prolifico e alla sua attitudine giocosa al mezzo, si è forse giunti a un punto della sua carriera in cui avrebbe poco senso chiedersi di eventuali significati extra-filmici, simbolismi e, più in generale, approcciarsi con un’analisi che vada oltre il testo stesso. I significati si trovano nella relazione tra quest’ultimo testo, quelli precedenti e, chissà, quelli futuri. Piuttosto che parlare del singolo film, sembra più appropriato considerare di volta in volta l’intero corpus, chiedendosi cosa vi aggiunga o cosa confermi l’oggetto di studio. In questo caso, First Love sembra aggiungere poco (cosa che invece L’immortale faceva) ma conferma al contempo la maturità di un regista che è stato capace di progettare nel corso della carriera un cinema totale e autosufficiente, la possibilità di un cinema per il cinema stesso e una serie di opere metonimiche, in grado di parlare ogni volta di tutti gli altri film che le avvolgono.