Taurus

Tra tutte le saghe cinematografiche apparse sullo schermo nell’ultimo quindicennio, quella sul potere realizzata da Aleksandr Sokurov è stata di gran lunga una delle più importanti e ambiziose. L’idea di dare forma concreta non solo a tale concetto ma anche alla vita (stra)ordinaria di tre personaggi chiave del cosiddetto secolo breve (Hitler, Lenin, Hirohito) ha rappresentato un’autentica sfida al mezzo cinematografico e alla sua capacità mimetivo-riproduttiva, portando l’occhio della macchina-cinema in territori inesplorati, verso terre vergini che mai nessuno aveva avuto il coraggio di attraversare. Perché il difficile di un’operazione simile non stava tanto nella rappresentazione di questi uomini (quanti esempi abbiamo nella storia della settima arte di film che si sono misurati con storie di questo tipo?), quanto piuttosto nella volontà di coglierne l’essenza e il valore simbolico, al di là del momento contingente preso in esame, al di là della Storia (e delle storie) di cui erano emblemi. E’ per questo che in Moloch non vediamo il “solito” Hitler invasato e sbraitante durante gli ultimi, concitati giorni della dittatura o in Taurus il Lenin della Rivoluzione d’Ottobre; di queste due icone – per Hirohito il discorso si fa leggermente diverso – assistiamo “solamente” ad alcuni momenti della loro vita privata, a porzioni insignificanti (e proprio per questo di capitale importanza) della loro esistenza.

La sfida di Sokurov risiede tutta in questa coraggiosa scelta di superare i vincoli storici, mettendo da parte l’immaginario cinematografico che lo precedeva per spingere l’occhio della macchina da presa oltre le mura domestiche, oltre le soglie abitative, oltre la dimensione pubblica. Tra l’obbiettivo della cinepresa e il soggetto inquadrato sembra quasi sempre esserci un sottile strato di nebbia, come un leggerissimo velo che ci separa da questi uomini, che rende plasticamente visibile quella distanza comunque inevitabile, che ci tiene lontani dai corpi, dalla loro concretezza materica. Li vediamo rivivere sullo schermo, respirare, mangiare, disperarsi e persino giocare, ma non possiamo “toccarli”, non possiamo sentire palpitare la loro carne. Quest’ultimo confine è invalicabile: a noi spetta solamente il privilegio di essere spettatori, testimoni invisibili di alcuni attimi di vita inediti e irripetibili.

In Taurus (presentato in concorso al Festival di Cannes 2001) il regista russo ci (ri)porta nel 1924, durante gli ultimi giorni di vita di Lenin, trascorsi dal padre della rivoluzione in una villa lontana da Mosca. Sokurov ci catapulta nella sua stanza da letto, mostrandoci la sua solitudine e la sua degenza. Non sembra avere pietà per lui. Del Lenin condottiero e dittatore non c’è traccia: quello che abbiamo davanti agli occhi è solamente un uomo vecchio e malato consapevole di essere ormai giunto al capolinea. In questo secondo capitolo della tetralogia (Moloch, Taurus, Il Sole, Faust) Sokurov si concentra quindi sull’assenza di potere, su una persona triste e sola che è già stata messa da parte, fatta fuori dagli organi di quel partito che egli stesso aveva contribuito a fondare. Il Lenin di Taurus è un uomo sconsolato e inerme che non sa accettare di aver fatto il suo tempo, di dover passare il testimone. Il suo incontro con Stalin è emblematico in tal senso: malgrado sia cosciente di stare davanti a colui che di fatto gli ha già usurpato il ruolo, è incapace di reagire e di riaffermare la sua superiorità – il potere logora chi non ce l’ha (più). Tutto ciò che può fare una volta ritrovatosi di nuovo solo è augurarsi che il mondo non sopravviva a lui. Che il vento non continui a soffiare, che il sole non continui a sorgere. In definitiva, che il suo paese crolli con la sua morte. “Avete intenzione di vivere dopo di me?” domanda ai servitori, come se il loro fosse un atto d’insolenza. Non è in grado di accettare la sua finitezza, il suo essere precario nel mondo. Osserva inerme le foglie accarezzate dal vento, le nuvole fugaci che attraversano il cielo, lo spettacolo della natura che si manifesta davanti ai suoi occhi, svelandogli la sottile crudeltà dell’esistenza. Il potere o la sua incarnazione materiale fa i conti con qualcosa di più grande su cui non ha nessun controllo. Per quanto un uomo possa aver accumulato ricchezze e prestigio, per quanto possa aver creduto ciecamente in qualcosa, donato la sua vita e sacrificato quella di tanti innocenti per questo, non può nulla contro la morte, il decadimento fisico, il passare del tempo. La disperazione che attanaglia Lenin lo porta ad immaginare scenari catastrofici (“non vi immaginate cosa capiterà dopo di me”) presagendo le derive sanguinarie del suo successore. Da persona “qualunque” spaventata dalla morte, non può non augurarsi l’estinzione del genere umano, la fine di tutto. Paradossalmente però, così facendo riesce a guardare oltre, nel futuro, profetizzando tutto il peggio che il suo paese vivrà negli anni a venire. La sua intuizione non è però espressione delle sue qualità politiche ma solo del disperato sentimento che attanaglia gran parte degli uomini quando giungono alla fine. Sokurov chiude il film lasciando Lenin solo davanti alla “straziante meravigliosa bellezza del creato” come a dire che gli uomini (chiunque essi siano stati) passano, mentre il mondo e la sua bellezza resta.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 01/03/2015

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