Speciale Westworld / Il mondo dei robot
Nel 1973 nasce il parco dove umani e robot si confondono, disegno-monito di un mondo che sogna il futuro per rivivere il passato
Le macchine non emersero dalle ceneri dell’inferno nucleare, ma da un più prosaico parco di divertimenti: il riferimento a Terminator è dato dalla figura dell’inarrestabile Pistolero di Yul Brinner, che anticipa di quasi dieci anni il cyborg cameroniano, nel suo incedere privo di emozioni, tutto finalizzato all’annientamento della vittima umana. Una figura di snodo, che nel look rievoca naturalmente Chris Adams, il leader dei Magnifici sette, interpretato dallo stesso Brinner tredici anni prima, e che riesce con la sua sola presenza a tarare la cifra stilistica di un lavoro a metà: un po’ western, un po’ fantascienza, ovvero un po’ cascame della Hollywood dei tempi d’oro e un po’ prefigurazione delle nuove iconografie destinate a fermentare nei decenni a venire, e, più in generale, di quella transitorietà dei generi che sarà la cifra stilistica dei cosiddetti blockbuster.
Che poi Il mondo dei robot (Westworld) un blockbuster non è, ma nemmeno un film d’autore tradizionalmente inteso: a scrivere e dirigere, in fondo, c’è un’altra figura “a metà”, quella di Michael Crichton, fautore di una fantascienza sempre molto documentata sul versante tecnico-scientifico, scrittore di best-seller spesso più geniali nelle intuizioni che nella forma narrativa, qui alla prima prova per il grande schermo – alle spalle aveva soltanto la regia del tv movie Pursuit, uscito l’anno prima. Il casting, che a suo dire fu imposto direttamente dalla MGM, guarda pure a certa fantascienza “a metà” dello stesso decennio, con James Brolin che rimanda a opere come il futuro Capricorn One (aveva ricoperto un piccolo ruolo anche in Viaggio allucinante), indice di un genere che viaggiava su binari più problematici e meno orientati alla cifra più schiettamente spettacolare.
Anche per questo, Il mondo dei robot riesce a riverberare una lucidità teorica forse addirittura superiore alle intenzioni dello stesso autore: non un semplice monito tecnofobico, ma una sorta di osservazione in vitro di una microcomunità che si sgancia dal contesto storico-sociologico contemporaneo per farsi punto d’osservazione sulle dinamiche interne a un gruppo dove la posta in gioco è il superamento stesso dei codici imposti dalla natura e dalla vita. E fin qui siamo in pieno dominio crichtoniano, come testimonieranno i futuri Coma profondo e Jurassic Park. Ma poi c’è una direttrice alternativa, quella di un cinema che, nel porsi al crocevia fra la tarda classicità di western e pepla e la nuova fantascienza d’azione, riflette suo malgrado il fallimento dei modelli già sedimentati e la loro pervicace lotta per essere ancora protagonisti del dopo. Perciò il Pistolero si ribella e attacca un’umanità che in fondo sembra intrattenere con la memoria un rapporto esclusivamente esotico: le location storiche di Westworld, in fondo, non hanno la pretesa di essere accurate, ma di riverberare unicamente l’illusione di un altro tempo e un altro mondo possibile, che permetta la decontestualizzazione.
In effetti, l’aspetto che più colpisce non è soltanto l’operazione ibrida che permette di reimmettere il western attraverso la prospettiva offerta dalla fantascienza; né tantomeno la torsione che trasforma un’icona classica come Brinner in un pistolero sanguinario più vicino ai modelli italiani (tutte letture legittime, beninteso). È il ritratto del fuori, del mondo alternativo al parco, che letteralmente non esiste e quando lo fa ha le fattezze asettiche e oscure delle camere-laboratorio dove i tecnici tirano i fili del loro piccolo mondo. Un mondo-prigione che sembra uscito dal Futuro da cui fuggì l’uomo di George Lucas e anticipa la New York carpenteriana, che quasi sta lì a giustificare il piacere di immergersi nel rassicurante conforto del noto trasmesso dal parco. In questo senso, sì, Il mondo dei robot diventa un monito all’umanità che vive nel passato e non sa affrontare il presente: parla di futuro, ma lo “spreca” per ridare linfa alla nostalgia e finisce per soccombere alla stessa. Il finale semi apocalittico sembra chiudere la porta a possibili prosecuzioni, ma la partita non è mai chiusa, come dimostrano le varie terminazioni della storia, su cui ancora oggi torniamo a interrogarci.