Blanco en blanco
L'esordio di Théo Court è un confronto con l'immagine dell'orrore attraverso la prospettiva di chi ne è stato l'artefice. Una discesa morale nel cuore di tenebra cileno che riflette sullo sguardo per rischiarare le ombre di un passato sanguinoso.
Se la cinematografia cilena di Pablo Larraín, Patricio Guzmán e Miguel Littín si è spesso confrontata con il trauma recente del regime di Pinochet, Théo Court sceglie invece di affrontare il grande rimosso del proprio Paese, affondando lo sguardo tra le ombre del colonialismo, quando nella Terra del Fuoco, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si consumò il genocidio del popolo Selk’nam. Presentato alla 76 Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, Blanco en blanco racconta il viaggio nel cuore di tenebra della Terra del Fuoco di Pedro (Alfredo Castro), fotografo chiamato dal misterioso e potente Mr. Porter a immortalare il matrimonio di questi con la sposa promessa ancora bambina. Il corpo della giovane, inerme di fronte alla macchina fotografica di Pedro, fomenta nell’uomo un interesse morboso. Quando Mr. Porter lo viene a sapere costringe il protagonista ad accompagnare un gruppo di spietati coloni per documentarne le barbarie. Per Pedro sarà l’occasione di dare sfogo al proprio talento artistico, per i posteri invece la possibilità di confrontarsi con una pagina indelebile nella storia del colonialismo sudamericano.
Théo Court è partito da un’immagine per il suo esordio nel lungometraggio. Un’immagine nata per glorificare le mire suprematiste dei latifondisti cileni e argentini (sostenuti dalle autorità statali) e oggi riconsegnataci come documento che attesta la vergogna del massacro. Da qui l’idea vincente di immaginare cosa potesse essere accaduto all’uomo che scattò quelle fotografie. È nella distanza percettiva tra il momento in cui sono state prodotte quelle immagini e quello in cui ci vengono restituite oggi, tra la sensibilità di chi si è reso complice e quella di chi ora osserva quell’orrore - e in questo Blanco en blanco è anche un film sul tempo - che si impernia infatti la crasi e l’interesse di Court per una vicenda ancora in cerca di un riconoscimento ufficiale da parte del parlamento cileno, dopo le proteste del 2007, quando il governo cominciò a parlarne minimizzando l’accaduto. Nelle due sequenze più importanti si sovrappongono così tre sguardi, quello freddo, oggettivo della macchina fotografica, quello partecipe e deformante di Pedro e quello di noi spettatori, chiamati a conferire un valore testimoniale a quelle immagini.
Due scene a macchina fissa con lo schermo in 4:3, a restituire il formato delle fotografie d’epoca. Nella prima, a inizio film, il corpo della sposa bambina pronto a essere impresso su pellicola da Pedro, il quale ne predispone lascivamente la postura; nella seconda, sul finale, i meticolosi e agghiaccianti preparativi con cui viene allestita la foto dei coloni vittoriosi assieme ai cadaveri degli indigeni. In entrambi i casi un atto di colonizzazione del reale, emblematizzato dal corpo della ragazza, immagine di una terra vergine (blanca) che la rapacità latente di Pedro - pronta a rivelarsi alla fine del film - vorrebbe possedere e prosciugare. Un’estetizzazione del male, quella in chiusura, che produce però un cortocircuito e richiama alla memoria quanto accaduto nel 2004 alle immagini scattate nel carcere di Abu Ghraib da alcuni soldati americani ai danni di prigionieri iracheni, immagini pensate, scattate, rigorosamente composte con logica spettacolarizzante, per essere rappresentazione iconica di una rivalsa sul nemico, e finite invece con il rivolgersi contro i loro stessi autori. Immaginando e focalizzandosi sul processo che ha portato alla realizzazione di questi scatti (di cui non vediamo mai gli originali), Court è inoltre attento a sottolinearne, con notevole maestria, la componente perversamente erotica sottesa allo sguardo di chi se ne fece produttore, per arrivare al contrasto tra la bellezza formale di quell’ultima inquadratura e l’atrocità di quanto vi è contenuto.
Tra queste due immagini, Alpha e Omega di un percorso da Eros a Thanatos, si dipana la discesa morale di un uomo in quelle terre ancora selvagge ma già avvelenate dalla corruzione del conquistatore, riprese con un’estetica che talvolta cede il passo al western, dove il bianco abbacinante della neve sembra solo l’ultimo flebile grido di resistenza che invoca una luce (fisica e morale) che ne rischiari le ombre. A sostenere la prova di questo individuo inizialmente contrario ai piani degli sterminatori e poi sempre più invischiato nella macchina distruttrice, un Alfredo Castro che torna ai ruoli pruriginosi interpretati nei film di Larraín. Pedro potrebbe essere infatti un embrione del Tony Manero dell’omonimo film o del protagonista di Post Mortem, uomini che hanno smesso di vedere la realtà che li circonda, o perché soverchiati da una indifferenza alimentata dalla paura (Post Mortem) o alienati a tal punto da sovrapporre al reale il filtro allucinato delle proprie illusioni (Tony Manero). Uomini ossessionati da qualcosa, che hanno maturato un rapporto disturbato con l’immagine, e la cui mitezza occulta un animo rimodellato dalla violenza. Tre tappe di un percorso involutivo votato a un’escalation di brutalità che racconta, attraverso la nascita di un uomo nuovo, la storia del Cile. A conferire al film uno sguardo più aperto su orizzonti esistenziali, su Pedro incombe inoltre lo spettro del kafkiano Mr. Porter, potente burattinaio che né lo spettatore, né lo stesso protagonista (forse) conosceranno mai. La verità invece, quella sì, verrà un giorno, letteralmente, alla luce.