The Tiger

Park Hoon-Jung firma la spettacolare caccia all'ultima tigre coreana e ne ricava un'opera affascinante quanto irrisolta, un violento corpo a corpo con la natura e le contraddizioni dell'uomo

Park Hoon-Jung, nome già noto agli appassionati di cinema sudcoreano, apre la diciottesima edizione del Far East Film Festival con un film di grande potenza visiva e spettacolare. The Tiger è la storia di Chon Man-Deok (il grande e ubiquo Choi Min-Sik), una vecchia leggenda della caccia che vive con il figlio sedicenne raccogliendo erbe medicinali.

Siamo nel 1925, la Corea è sotto occupazione giapponese e il governatore dell’Impero ha deciso di portarsi a casa la pelle dell’ultima, leggendaria tigre coreana rimasta. La caccia è estremamente difficile e Chon è infine costretto a partecipare a causa del coinvolgimento del figlio. Per lui, la caccia è molto più che un atto simbolico: è un confronto senza uscita con il proprio passato doloroso.

The Tiger è un ibrido interessante tra generi e regimi narrativi, quale si può trovare spesso nella produzione cinematografica coreana. Park Hoon-Jung, sceneggiatore talentuoso di I Saw The Devil e The Unjust e, più di recente, regista del notevole noir epico New World, si cimenta qui con la sua terza regia.

Questa volta, Park si addentra in territori inesplorati e un tema decisamente difficile da maneggiare; è il suo film più ambizioso. Cinema d’avventura, storico, epico e d’azione cercano un ideale punto di incontro che è sempre instabile e provvisorio. In questo rapporto irrisolto e aperto, in questo jump-cut diegetico ed ontologico, giace il fascino e il limite di The Tiger. Tante sono le storie e i film possibili, non tutti adeguatamente curati: il rapporto tra il cacciatore e il figlio ribelle, ormai stanco della vita di montagna e desideroso di riunirsi alla civiltà e alla città; l’elaborazione di un lutto famigliare; lo scontro tra modi di vivere ed etiche incompatibili o insostenibili; il senso di una caccia che ha il sapore della definitiva sconfitta storica della debole Corea, da sempre schiacciata dai due giganti cinesi e giapponesi e costretta all’infinito compromesso.

Molti dei coprotagonisti hanno il compito di completare, o simbolizzare, i diversi approcci alla modernità e al progresso: il figlio di Chon ha un ruolo di primo piano come mediatore tra le vie degli antichi e la modernità, mentre il cacciatore rivale incarna il cinismo della sopravvivenza ad ogni costo e il desiderio di vendetta nei confronti della natura. Ma, naturalmente, è la tigre a costituire il centro di tutti questi percorsi visivi e narrativi. Creatura sfuggente e spettacolare prodotto della computer grafica, la gigantesca tigre coreana su cui converge il film è un trionfo di cinema digitale. Non solo per la qualità visiva e di animazione, ma per lo straordinario equilibrio di visione e suggestione che segna le sue incursioni nella foresta.

Nel corso di The Tiger, ci sono diverse occasioni di osservarla e studiarla nei dettagli; tuttavia, è nelle sue corse spettrali tra gli alberi e nella sua comunione con le ombre della montagna che la bestia trova consistenza di creatura (post)mitologica, indomabile, resistente. Siamo di fronte al drago, al mostro ormai anacronistico, sopravvissuto alla modernità ed alla colonizzazione dello spazio selvaggio e simbolico. La sua stessa esistenza è un oltraggio alla tecnica e al progresso incarnato dai giapponesi. La caccia alla tigre con fucili e dinamite ha quasi il sapore di un ultimo, perverso torneo cavalleresco, più farsesco che crudele o tragico. La distruzione della foresta e il sacrilegio della montagna portano la mente cinefila ai boschi silenziosi del cinema orientale, al cinema di King Hu e alla sua totale impossibilità ontologica nel ventunesimo secolo. Non è più tempo di eroi, né di cavalli, né di montagne inviolate.

In questi momenti di caccia e osservazione, lontano dai personaggi e dalla narrazione tradizionale, The Tiger dà il meglio di sé. Quando mette tra parentesi i propri personaggi e si concentra sull’aspetto percettivo e il ritmo visivo di montaggio, il film compone una storia delle forme molto più interessante della prima: il gioco di silenzi e ruggiti, i vuoti e i pieni della violenza della caccia tra un attimo di quiete e il parossismo violento di quello successivo. Questo è vero, grande cinema.

Nel terzo atto del film, qualcosa di questa magia si perde: la furia e l’indipendenza dell’animale vengono infine domate, non dai cacciatori ma da una retorica ingombrante, e la tigre si riduce ad un personaggio quasi antropomorfo, a metà tra le creature Disney e la tigre domata di Vita di Pi. Un’occasione sprecata per una riflessione più radicale e coerente, nonché causa di un vistoso calo di ritmo nel finale. Eppure, nonostante i difetti e gli eccessi di retorica, The Tiger possiede l’innegabile fascino di un mito bifronte. Mito transmediale e transculturale, luogo di elaborazione di contraddizioni e urgenze culturali più profonde. Il successo, nella vicina Cina, di un libro con tematiche e spirito tutto sommato simili come Il totem del lupo (e del film tratto dal volume, L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud) è da ricordare in questo senso.

Il Lupo e la Tigre (e anche l’Orso di Revenant, se vogliamo, così come tutto il serraglio del cinema da Flaherty in poi) ci raccontano di un cinema ossessionato più che mai dalla natura selvaggia, dalla "prima" natura dell’uomo, quella dimenticata e ormai incompresa. Il cinema vi si aggrappa, tentando di catturarne il nucleo silenzioso e poetico. Tentativo ormai futile: il digitale e l’iperrealismo dell’altissima definizione rendono il fascino della natura e della Bestia l’ombra di un passato lontano, di cui resta solo il puro spettacolo e la magia della settima arte di cui siamo, fatalmente, consapevoli e complici. In questa spola irrimediabile tra immediatezza e ostentazione del medium, tra ombre digitali e labili architetture di genere e di senso, Park Hoon-Jung ha messo in scena un terribile, infernale paradiso perduto.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 24/04/2016

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