Torino 2013 / Stop the Pounding Heart

Si può definire in una parola il cinema di Roberto Minervini? Pasoliniano, come quello del suo autore preferito? Neorealista (con i prefissi del caso), per lo sguardo consapevole e l’ideologia del vero che lo attraversa? Apolide, poetico, etnografico? Il fascino dell’opera di Minervini sta innanzitutto nella difficoltà di situarlo. Prismatico ed enigmatico, il suo cinema si colloca su uno spettro amplissimo di possibilità e stili cinematografici. Abbattuti gli steccati ed eluse le vecchie categorie, le immagini scorrono libere e non temono di addentrarsi in nuovi continenti.

Stop the Pounding Heart è l’ultimo e più maturo sviluppo dell’opera del cineasta marchigiano emigrato negli Stati Uniti, nonché la conclusione felice e matura di una trilogia texana che lo connette ai precedenti Passage e Low Tide. Il film ci immerge nella vita di una comunità profondamente religiosa nel cuore dell’America sudista: a fugare ogni dubbio, un bambino di nome Dixie, uno degli undici fratelli della protagonista. Lei è Sara, una giovane ragazza non ancora maggiorenne. La vediamo mungere le carpe, pregare, frequentare il catechismo e le lezioni in casa (come gli altri membri della comunità, lei non è stata educata a scuola), insegnare i medesimi precetti a fratelli e sorelle. Fedele ai dogmi di una religione che ai nostri occhi appare come arcaica e lontana, eppure piena di incertezze e dubbi. Le viene insegnato che la donna deve sottomettersi all’uomo e che la Bibbia è un libro di scienza: un percorso di vita è stato preparato per lei, lo accetterà? Minervini non giudica a priori, ma costruisce assieme ai personaggi – che interpretano se stessi – una storia corale che coinvolge Sara e un giovane torero di cui si invaghisce. A lato, genitori, famiglia, poligoni di tiro e riti sociali della provincia americana più lontana, che a tratti trasfigura in rievocazione di secoli e storie passate.

Il cuore è quello, rivelatore, che batte dietro le immagini: è la verità, nascosta e indefinibile, a cui le immagini tendono e che si approccia grazie ad una collaborazione vivifica tra cineasta, personaggi rappresentati e ambiente. Autonarrazione, come l’ha voluta definire Minervini nel corso di un incontro che ha seguito la proiezione del film al Torino Film Festival. O almeno, autonarrazione assistita, costruzione di un rapporto il cui esito (intermedio?) è un film. Il regista, come nelle sue opere precedenti, gioca su territori neutri, tra finzione e documentario. In questo caso, come nel precedente Low Tide, non c’è un vero e proprio amalgama tra attori professionisti e uomini presi dalla strada, ma una comunità di persone vive e reali che il regista ha coinvolto in un processo creativo collettivo[1]. Se di documentario si tratta, allora è del genere performativo più estremo: il confine tra vero e verosimile slitta continuamente e fa la spola tra le immagini di un’opera collettiva il cui terzo, inevitabile creatore è lo sguardo al di là dello schermo, a cui si richiede razionalità e approccio attivo verso le immagini.

Minervini è un cineasta del vero, qualunque cosa significhi questo termine nel regno delle immagini digitali e della diffidenza istituita. La sua macchina da presa pedina i suoi personaggi, zavattinianamente, ma li sa abbandonare quando è necessario, per aprirsi a un quadro più ampio dell’ambiente che li abbraccia e li domina. Sara è dominata dall’ambiente ma, nel film come nella vita reale, esso è troppo angusto e possibili libertà e percorsi alternativi si aprono ad ogni istante. Il regista sa cogliere queste ambiguità senza forzare la mano, con un metodo documentario (troupe ridotta al minimo e metodologia che ricorda da vicino Frederick Wiseman) consapevole della responsabilità dell’autore. Non è un caso, in questo senso, che Minervini collabori con la montatrice dei fratelli Dardenne, altri maestri del pedinamento.

Alla base del film c’è un profondo umanesimo. Un umanesimo opaco, che rifiuta la facile leggibilità delle sceneggiature in favore del canovaccio e delle piccole rivelazioni. Non tutto è spiegato, molti degli appunti visivi sono pure suggestioni. Anche le immagini sono ruvide, catturate in luce naturale e mai stabili; sempre bellissime, quasi loro malgrado. Ciò che più sorprende di Stop the Pounding Heart è la sua inspiegabile forza poetica, che scaturisce dall’anima essenzialmente ambigua dell’opera: autoriale e “diretta”, descrittiva e lirica al tempo stesso. Spesso si fa il nome di Malick per descrivere le immagini di Minervini, ma il paragone più calzante è forse quello con Bresson. Mouchette e Balthazar sono i fantasmi che indugiano nel fuori campo dei film di Minervini, radicalmente moderni e al tempo stesso pregni della tradizione di una settima arte che ancora osava tendere verso gli assoluti e le ontologie.

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[1] Il primo film della trilogia, Passage, adotta un approccio diverso: la protagonista è un’attrice professionista nel ruolo di una donna malata che parte per un viaggio alla ricerca di una possibile cura. Tra gli altri, incontrerà uno sciamano a cui chiederà conforto e speranze. Quest’ultimo non era un attore e non sapeva che la donna stesse recitando.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 14/10/2014

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