C.O.G., ovvero Child of God, ma non siamo dalle parti di Cormac McCarthy. Piuttosto si respira aria di Furore, ma come scoprirà il protagonista David, leggere William Faulkner può avere esiti inattesi. Come ad esempio decidere con la propria migliore amica di passare l’estate dopo la laurea tra i frutteti di mele dell’Oregon, lavorando braccio a braccio con immigrati messicani e operaie frustrate. E la cosa peggiore è quando la suddetta amica decide di lasciarti lì da solo, nei frutteti, perché forse quello di abbandonare gli agi di un’università alto-borghese per calarsi nei panni dei braccianti e vivere “la vita vera” non era proprio un gran piano. David, o Samuel come si fa chiamare nei campi, rimane solo, e per lui sarà l’occasione per intraprendere un percorso di formazione doloroso ma intimamente necessario.
Con C.O.G. il regista Kyle Patrick Alvarez – 30 anni, all’opera seconda dopo Easier with Practice del 2010 – si confronta con l’occasione che nessun cineasta ha mai avuto, ovvero adattare per il grande schermo un’opera di David Sedaris. E’ la prima volta infatti che lo scrittore e umorista americano concede a qualcuno la possibilità di trarre un film dai suoi scritti, in questo caso un racconto breve giocato, come di consueto per Sedaris, tra autobiografia e caricatura finzionale. Per affrontare la sfida Alvarez prende un bravo Jonathan Groff (attore televisivo, tra Glee e Boss) e gli costruisce attorno il più classico racconto di formazione, un coming of age che rispetta tutte le tappe del genere e si cala consapevolmente sulla scia della tradizione aperta dall’Holden di Salinger, di cui recupera il connubio tra ironia e malinconia e l’intellettualità del suo protagonista – snob e ingenuo ma anche capace di regalare delle vere perle, come quando afferma di non leggere la Bibbia perché, semplicemente, è scritta male. Tra i pregi del lavoro di Alvarez c’è sicuramente il tono leggero e ironico con cui viene portato avanti il racconto, ben orchestrato nel suo trascolorare da registri apertamente comici ad altri più malinconici e sofferti, tenendosi comunque lontano da un gratuito melodrammatico.
Certo, C.O.G. è l’ennesimo film del festival ad arrivare dal Sundance, e la sua provenienza si sente davvero tutta, specie nella fattura di un’estetica indie sempre più conformata, tuttavia Alvarez sembra consapevole della banalità insita nel percorso classico del suo protagonista, e per arginare ciò si concentra giustamente sui singoli personaggi incontrati da David/Samuel. Su tutti a sorprendere positivamente è il sempre grande Denis O’Hare, che con il suo Jon disegna un memorabile reduce ex-alcolista convertitosi a Gesù Cristo, sgradevole e dolente nelle contraddizioni insite alla sua fede. Sarà proprio su di essa che si scontrerà David, che in un momento arriverà a cedere alle lusinghe religiose dell’ennesimo mentore accumulato nel suo viaggio, prima di rendersi conto di dover cercare da solo le risposte alla propria malinconia. La sua ricerca di sé non può prendere false (anche pericolose) scorciatoie, è destinata a durare nel tempo, come dimostra la lunga strada vuota su cui si chiude il suo racconto.