Rahul e Shalini sono divorziati, a legarli ancora è la figlia Kali, 10 anni e un enorme bisogno d’affetto. Durante un fine settimana passato col padre la bambina, lasciata per un attimo da sola, scompare misteriosamente. Il ritrovamento del suo cellulare fa partire una ricerca che porterà con sé imprevedibili sorprese.
Dopo Gangs of Wasseypur, presentato nel 2012 alla Quinzaine a Cannes, Anurag Kashyap torna a riscrivere le regole del crimine attraverso un film sicuramente più piccolo (e non solo dal punto di vista della durata), meno ambizioso, ma non per questo privo d’interesse. Nonostante una storia estremamente privata, almeno inizialmente dai connotati quasi domestici, il film agisce su un doppio livello: da un lato vi è il tentativo di mostrare la lacerante condizione di una famiglia allargata dell’India dei giorni nostri, le dinamiche di appropriazione genitoriale che vengono messe in piedi e gli sdrucciolevoli equilibri tra rapporti personali e economici; dall’altro, allargando lo sguardo fino ad acciuffare un approccio quasi macrosistemico, il film utilizza strumentalmente la scomparsa di una bambina per offrire un quadro stratificato della Mumbai contemporanea, fatta di logiche di potere mostruose e rapporti di forza che non riconoscono rispetto e lealtà nei confronti di nessuno.
Sebbene sia programmaticamente un film di genere, Ugly si impone prima di tutto per un’esuberante originalità, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto quello stilistico: il genere non è una gabbia ma solo un’impronta, una pasta manipolabile dove poter alternare accumulo e sottrazione, toni sommessi ed esagerazioni improvvise. È senza dubbio la pluralità di linguaggi ciò che emerge maggiormente a seguito della visione, ciò che mette in crisi qualsiasi tentativo tassonomico. Il noir dà sicuramente il taglio generale dal punto di vista delle atmosfere e della caratterizzazione dei personaggi, sempre a un passo dall’essere degli outlaw, seppur in molti casi in maniera involontaria, inconsapevole. Tutto ciò che c’è attorno però è molto più che semplice orpello caratterizzante: il giallo dà direzione e articolazione alla cupezza dell’impianto narrativo; il melodramma serve a mettere alla berlina una serie di esempi di umanità trascinata e desolante; la comicità non ripone le armi e anzi assieme a un approccio in certi casi consapevolmente trash, fa da dispositivo critico dell’istanza narrante.
Croce e delizia del film, con la seconda sicuramente preponderante sulla prima, è l’aspetto narrativo. Dalla cellula familiare il plot si sviluppa e si riproduce in una pletora di personaggi più o meno secondari, emblemi di famiglie e società allargate, personaggi simili tra di loro, doppioni interscambiabili, oppure caratteri unici che interpretano più ruoli, a caccia di un successo personale, temporaneo, unica forma di gloria possibile. La caccia all’uomo diventa presto un tutti contro tutti, una mise en abyme dove il tradimento è spesso il filo rosso che lega ciascuna situazione narrativa e dove le vicende dei protagonisti sono arricchite di volta in volta da un gioco di flashback esplicativi circa il loro passato, per nulla didascalici, bensì di pregiata fattura non solo sul piano narrativo, ma anche su quello visivo. A questo proposito viene fuori una grande consapevolezza dei propri mezzi da parte dell’autore, capace di creare immagini di grande impatto, caratterizzate da una fotografia altamente contrastata, dove lo scontro tra luci e ombre raccoglie alla perfezione il testimone del cinema noir, dalla classicità alla contemporaneità. Immagini da cui traspare entropia sequenza dopo sequenza, dove Mumbai è il calderone impazzito che vomita individualità senza più nulla da perdere, alla ricerca di un’aprioristica ragione di esistere; modelle mancate, showgirl da quattro soldi, attori senza film, produttori senza prodotti, tutti interpreti di uno spettacolo desolante, esempi di una società di rara bruttezza (ugly, appunto), senza più nulla da desiderare, più nulla da sognare.