Transcendence

Molto spesso si è soliti porre l’accento sulle problematiche relative ad un uso disumanizzante e alienante della tecnologia: quell’utilizzo distorto della modernità e dei suoi mezzi che non fa altro che amplificare le distanze anziché ridurle, dilatare il contatto umano, estinguere la reale condivisione, sacrificare il cuore delle cose. Ma cosa succede se è questo schema di pensiero ad essere sovvertito? Se è proprio l’emotività, il sentimento, perfino il patetismo a impossessarsi neurologicamente di un sistema operativo fino a trasformarlo in un computer senziente, oltrepassando perfino le barriere imposte dalla morte? L’esordio alla regia del direttore della fotografia Wally Pfister parte da questi interrogativi sulla carta decisamente stimolanti, purché non siano affrontati con un approccio moralista o con un compendio di filosofismo rammollito e new age del quale francamente non se ne può più. E Pfister, assiduo e fedele collaboratore di Nolan, riesce per lo meno ad evitare queste paludi proprio come ha sempre fatto il suo mentore, tentando di rifondare o comunque elasticizzare notevolmente il concetto non solo di fantascienza ma anche di blockbuster. Nolan nel fare ciò è un regista non sempre convincente e spesso argilloso, ma anche un uomo di cinema solido e, per usare una perifrasi che ben corrisponde al suo cinema-meccanismo, altamente funzionale. L’opera prima di Pfister rivela invece idee molto più confuse, e alla portata teorica delle forze che si animano alla sua base – su tutte il conflitto tra dato numerico e sentimento, o meglio la loro compresenza forzata – accosta un’improbabile storia d’amore incapace puntualmente di generare l’elettricità data dallo sfregamento della dimensione immateriale dell’animo umano con quella fisica e tangibile dei sistemi operativi.

La sceneggiatura, macchinosa e non a caso scritta da un esordiente che sembra ben lontano dal padroneggiare un disegno complessivo e omogeneo della storia, arranca perché incerta sulla direzione da prendere, costretta a dibattersi come un animale in gabbia tra due poli non correlati: l’umanità e le sue indulgenze da un lato, il cieco volontarismo della scienza e dei suoi obiettivi da perseguire dall’altro. Una contrapposizione che si riduce non di rado in un manicheismo poco interessante, inadatto a generare appeal e reale contrasto, a suggerire una molteplicità di voci e di prospettive. Transcendence, a cominciare dal fascinosissimo titolo, è un film di cui val la pena di parlare più per i discorsi extra-cinematografici e para-filosofici che è in grado di generare che per il suo valore specifico. Un film che fa da chiavistello per aprire altre porte, come ogni ipertesto che si rispetti, ma che si dimostra poco incline a sobbarcarsi esso stesso tale peso impegnativo. Un’opera che fa arrabbiare perché il cinema, specialmente oggi, dovrebbe smetterla di delegare a terzi, di porsi come arte intermedia e subalterna ai territori scientifici (quando li affronta così da vicino, ovviamente). Dovrebbe rivendicare, anche e soprattutto attraverso opere come questa, non importa se belle o brutte, riuscite o irrisolte, un’autonomia pensante.

E invece Transcendence, più che un melodramma a due voci (il personaggio di Johnny Depp e quello di Rebecca Hall, amanti oltre le barriere della fisicità), rigorosamente ripiegato su se stesso e sull’inadeguatezza di un corpo venuto a mancare e riaffiorato in forma altra, sembra solo un anti-blockbuster masochista, poco strutturato e troppo sfilacciato, con punte di faciloneria (la musica enfatica ed evangelica, manco fosse un abusato theme di Hans Zimmer per un film di Nolan) e altri nadir di ingenuo e pretenzioso minimalismo. Sembra Lei riveduto e corretto attraverso la lente deformante di uno Zero Dark Thirty rifatto alla meno peggio, una puntata di un serial diluita e arretrata nelle forme e nel linguaggio. Il che potrebbe essere un orgoglioso esempio di resistenza, di classicismo, di ritorno alle origini di un cinema capace di prendersi i suoi tempi per arrivare a essere, finalmente, significante. Non è però il caso di Transcendence, e non è colpa più di tanto delle forzature della seconda metà del film o della sciatteria forzata e monoespressiva di un Depp che è sempre più copia sbiadita di se stesso (qui torna al look de La nona porta, più intellettuale e sobrio, ma continua a essere fuori fase e poco incisivo). Anche perché il film di Pfister ha il merito, in linea con la sua vocazione anti-spettacolare, di far fuori il corpo del suo protagonista dopo non molto: tale gesto iconoclasta non ha però le conseguenze dovute, non si traduce in uno sfaldamento struggente, in moto sfuggente al razionalismo scettico di chi guarda. Dello spettatore, un film così, alimenta piuttosto il cinismo sprezzante, e finisce col non servire a nulla. Demerito macroscopico di un’opera che non riesce nell’impresa antonioniana e di sicuro non facile di riempire l’assenza di un vuoto con la verità di una lacrima, di un abbraccio, di un contatto umano oltre che schermico. Transcendence guarda la vertigine, scruta la voragine, ma purtroppo se ne lascia mollemente incantare fino a farsene inghiottire, senza opporre resistenza. Con Pfister a fare la parte del novizio esitante e insicuro, che cita Don Siegel per cercare conforto, come uno studente diligente che aggiunge una nota in più al suo temino giusto per mettersi la coscienza a posto: l’erede moscio di un cinema che Nolan sa come riempire di steroidi tali da nascondere le falle, ma che in mano ad altri sembra solo un congegno inutile e polveroso, arrugginito e – quel che è più grave – tremendamente sorpassato.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 18/08/2014

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