Transformers 4 – L’era dell’estinzione
Nettamente inferiore rispetto al precedente, il quarto capitolo della saga dei Transformers appare come uno dei film più stanchi tra quelli di Michael Bay
Nel trovarsi di fronte il foglio bianco e il compito di recensire Transformers 4 – L’era dell’estinzione sorge spontanea una domanda: ha ancora senso oggi, a quasi dieci anni dal primo capitolo della saga robotica dedicata ai giocattoli della Hasbro, parlare male di Michael Bay? Ha senso evidenziare e criticare quegli elementi, sempre gli stessi, sul cui valore si scontrano da anni i detrattori e gli amanti dei suoi film? La domanda è retorica solo in apparenza perché nel bene o nel male quello in oggetto resta un caso unico nel panoramica cinematografico americano, in tutti i sensi. A parte pochi e poco memorabili esempi, il cinema di Bay è ancora una creatura a sé stante priva di epigoni, emulatori, scuole, e il suo fare blockbuster non può che essere definito una prassi autoriale, purché a tale termine non faccia seguito in automatico un giudizio valoriale. Bay è e resta autore perché nessuno fa e riesce a fare il cinema come lui, nessuno forse riesce neanche a pensarlo nei termini estremi di velocità e disordine e dinamismo un cinema come il suo. Vale quindi la pena di affrontare Bay in quanto autore? Certo. Parlarne bene però è tutto un altro paio di maniche.
Additato per anni come il nadir del valore cinematografico, il cinema di Bay è sempre stato meta di giudizi, insulti, critiche, tanto feroci quanto bellamente ignorate dalla larga manica di apprezzatori, non tutti rozzi e ignoranti come per molti è sempre stato facile credere. Tuttavia, al fianco del disprezzo superficiale dei detrattori, troppo spesso “prendere o lasciare” è stata la formula per descrivere il suo cinema, una facile scorciatoia in cui il gusto ha finito per addormentare ogni approccio critico. Ma come una belva tenuta troppo a lungo in cattività, ecco che dopo anni di silenzio la critica si è dedicata con estrema energia al cinema di Bay, riservando al suo lavoro pagine e pagine colme di termini come “avanguardia visiva”, “concettuale” e “futurismo”. Un approccio a nostro parere tanto parossistico quanto lo fu il disprezzo assoluto dei detrattori. E quindi, tornando alla domanda di partenza, ha ancora senso parlare male del cinema di Bay? Chi scrive pensa di sì, purché si eviti ogni snobismo da stadio per guardare negli occhi un cinema che resta tra i più importanti della Hollywood contemporanea.
Di Transformers 4 – L’era dell’estinzione allora possiamo dire anzitutto che conferma molti dei caratteri dei suoi predecessori: machismo patriottico e fascinazione per la forza militare intesa come valore, spettacolarizzazione sempre più estrema della distruzione, riscrittura della Storia umana (questa volta tocca alla Preistoria) in una sceneggiatura confusa, raffazzonata e priva di personaggi interessanti. Nelle sue pantagrueliche tre ore di sfarzo digitale e tramonti e rallenti, Bay e il suo sceneggiatore buttano i semi di una nuova trilogia, ma purtroppo tutti gli spunti più interessanti restano tagliati fuori, rimandati al prossimo capitolo, e quel che resta è l’ennesima contrapposizione tra l’America proletaria e ingenua ma pura d’animo (incarnata dall’inventore Cade di Mark Wahlberg) e il cuore di tenebra dei membri corrotti della CIA, in uno scontro condito da riferimenti all’undici settembre che nessuno è veramente intenzionato a sviluppare. Ma questo è, lo sappiamo, il cinema di Bay. Tuttavia invece di trincerarsi dietro il “prendere o lasciare” vale la pena notare come assieme alla non richiesta profondità psicologica e/o narrativa volino fuori dalla finestra anche il pathos e il senso del ritmo. Con questo quarto capitolo Bay riesce nella rimarcabile impresa di coniugare autocompiacimento e autolimitazione, portando all’estremo una tragedia della distruzione che nel suo ripetersi si declina e ostenta come farsa. Incapace di credere nel potere mitopoietico del suo stesso cinema, Bay si ostina a ricorrere ad una demenzialità autodistruttiva atta a vanificare ogni tentativo di narrazione, confermandosi così il regista che conosciamo, tecnicamente fenomenale ma totalmente disinteressato al cuore del suo film, a tutto ciò che vada oltre l’immediato solleticare del bulbo oculare. Rispetto all’epico finale di Transformers 3, quel micidiale tour de force di devastazione visionaria dall’indiscutibile impatto emotivo, l’atto finale di questo quarto capitolo appare stanco e sfilacciato, incastrato in un meccanismo di auto-emulazione con davvero poche carte da giocare. Eloquente è l’introduzione degli attesi Dinobot, una comparsa tardiva e quanto mai fiacca che invece di essere il centro emotivo del film non aggiunge davvero nulla.
Assodati questi limiti, che rendono Transformers 4 – L’era dell’estinzione uno dei film più stanchi tra quelli di Bay, resta da vederne il cosiddetto spessore concettuale, il nuovo cavallo di battaglia per chi vede in questo cinema nuove frontiere di post-umanità declinate in termini futuristi e d’avanguardia. A nostro parere tali posizioni sono un errore tanto grossolano quanto quello di chi vede in Bay un regista degno di solo disprezzo. Il cosiddetto futurismo di Bay è soltanto movimento di pura superficie, è sì un cinema del dinamismo sempre meglio incentrato sul rapporto ordine-caos, ma ogni intuizione, ogni impegno, ogni soluzione in tal senso non evade dalla dimensione labile e di consumo. Quello di Bay è allora un futurismo da fast food, un esercizio prettamente tecnico animato da una visione intenzionata a rimanere nel puro presente, a vivere unicamente nell’attimo della propria fruizione. Nulla sopravvive a sé stesso in questa fantomatica avanguardia, tranne forse quella pesante retorica ideologica che fa della forza militare il principio base di ogni relazione. Il futurismo signori era ben altro.