True Detective 2x06 - Church in Ruins
L’indagine è entrata nel vivo e sembra che tutti siano a un passo dal raggiungimento della verità, ma l'interesse è incentrato sul mondo dei fantasmi che albergano dentro i protagonisti.
Diciamo la verità: a chi interessa più risolvere il caso di omicidio raccontato nella prima puntata? A Ray Velcoro, Ani Bezzerides e Paul Woodrugh, certamente. Ma l’impressione è che si tratti sempre più di un macguffin, un pretesto narrativo fondamentale per i personaggi ma di secondaria importanza per lo spettatore. Spettatore che invece è invischiato sempre più in un intreccio torbido focalizzato non tanto su un singolo crimine, quanto invece su un intero universo fatto di relazioni umane e verità nascoste, di luoghi e di volti, di stereotipi noir e di rivelazioni sconcertanti.
Nic Pizzolatto non si atteggia a primo della classe, anche se è l’accusa che gli stanno rivolgendo in molti; la sua scrittura non è certamente esente da un certo tasso di coolness (nei dialoghi, soprattutto, ma anche nel ritmo esasperatamente catatonico), che certamente non facilita l’empatia, in particolar modo per chi pretende un approccio più classico alla materia. Eppure, riesce ogni volta a scavare più a fondo nell’animo dei suoi personaggi, facendone di fatto una sorta di cartina tornasole di una mappatura umana costantemente virata in nero.
Giunta al traguardo della sesta puntata, questa seconda stagione di True Detective continua a sorprendere per la sua capacità di reinventarsi costantemente, rimettendo in discussione ogni volta le aspettative create con il finale di ciascun episodio senza per questo adagiarsi sugli allori di cliffangher gratuiti o disonesti (nonostante la conclusione shock di Night Finds You). Ora che l’indagine è entrata nel vivo e sembra che tutti siano a un passo dal raggiungimento della verità, Pizzolatto continua a insistere sull’aspetto umano del suo intreccio; nessun personaggio si manifesta compiutamente da solo, nessuno ha una scena madre in solitaria, bensì sempre in relazione con un altro: seduti a un tavolo, sulla poltrona in salotto, a letto guardando le macchie del soffitto (che ora già non ci sono più). E sempre arriva il contrasto con la metropoli vista dall’alto, troppo grande, troppo lontana per riuscire a vedere da vicino quanto marcio nasconda tra le sue strade e sotto il suo terreno avvelenato.
Church in Ruinsè allora la storia della progressiva discesa nell’inferno dei suoi protagonisti, con un Colin Farrell sempre più consapevole della propria inadeguatezza nei confronti di un ruolo (di padre, di poliziotto, di uomo) e una Rachel MacAdams che finalmente riesce a specchiarsi in quell’abisso che alberga dentro di lei. La lunga e attesa sequenza finale dell’orgia, oggetto di illazioni e rumors sin dai tempi delle riprese, è il pretesto per mettere in scena non soltanto l’orrore di un mondo – quello che fa oggettivamente da sfondo alla vicenda – che finalmente sta rivelando il suo vero volto, ma soprattutto il percorso verso il ricongiungimento con i fantasmi (il Bob di Twin Peaks?) che abitano il nostro passato. E solamente abbracciandoli, riconoscendoli per quello che sono, sarà possibile poi continuare ad andare avanti, sfrecciando lungo le colline californiane nel buio di una notte illuminata da una luna piena di gotica memoria.