Tuta blu
L'esordio alla regia di Paul Schrader, un tassello fondativo di un percorso cinematografico senza compromessi.
1975
Una rete di sindacati della polizia di New York diffonde un volantino. Un teschio campeggia al centro con sopra una scritta inquietante: “Welcome to Fear City”.
Un avvertimento per i turisti malcapitati in una metropoli violenta e allo sbando. È un esempio paradigmatico di un’America malata, moralmente provata dal Watergate, economicamente disgregata dalla crisi degli anni ’70, momento di cesura tra la fine dell’ordine postbellico e il nuovo mondo. Di lì a poco, non a caso, esploderà l’isteria della no wave tanto cinematografica (Amos Poe, Richard Kern, in parte Jim Jarmusch) che musicale, dello sguardo estetico sul lato più marcio e degenerato del fragile american dream. Nelle grandi città, specie in quelle industriali, lo spazio urbano sembra una gabbia in cui i legami sociali sono destinati a frantumarsi o a implodere. Come a Detroit, dove è ambientato l’esordio dietro la macchina da presa di Paul Schrader, subito dopo le sceneggiature di Taxi Driver per Scorsese e Obsession per De Palma. Esce infatti nel 1978 Tuta blu. La storia di tre operai, Jerry (Harvey Keitel), Zeke (Richard Pryor), Smokey (Yaphet Kotto), impiegati in una fabbrica di automobili, che per sfuggire alla miseria quotidiana cercano una via d’uscita rapinando la cassa del proprio sindacato inutile e corrotto. Un atto che cambia tutto. Ognuno pagherà le conseguenze delle proprie scelte. La rapina costituisce il punto di rottura che segna il passaggio ad una seconda parte sempre più claustrofobica.
Trascendenza e desolazione
Tutto comincia dalla catena di montaggio. Un blues nervoso di Ry Cooder accompagna i titoli di testa in stop-frame. Uomini che ripetono gli stessi gesti meccanici sui macchinari, tra il sudore, le lamiere e le scintille. Nessuno di loro può essere considerato un personaggio positivo. Tradiscono le proprie mogli, si drogano, truffano lo Stato, sono un cattivo esempio per i propri figli. Lo scontro con il sindacato e la fabbrica non ha nulla di sociale o politico. D’altronde, lo aveva già chiarito Schrader stesso in una vecchia intervista al magazine Cineaste: «Non avevo intenzione di fare un film di sinistra». Il riscatto che i tre cercano, infatti, è soprattutto individuale.
Sarebbe controproducente e fuorviante giudicare Tuta blu attraverso le lenti del cinema engagé, in cerca di un senso di giustizia sociale. Il suo cinema è alla ricerca del trascendente, per usare il termine al centro del suo celebre libro su Bresson, Dreyer e Ozu, Transcendental Style in Film, tratto dalla sua tesi di laurea. E il trascendente nel cinema, per il regista di Grand Rapids, passa attraverso la decisione, la colpa e l’espiazione. Tre temi che sembrano corrispondere ai momenti in cui si articola lo stile che Schrader rinviene nei cineasti sopracitati: quotidianità, scissione, stasi.
Lontano dal Giappone in via di modernizzazione di Viaggio a Tokyo e dall’universo kierkegaardiano della fattoria Borgen di Ordet, Schrader a ha che fare con la ferocia di un sistema malato in cui non ci sono eroi popolari o salvatori. Pur in cerca di uno slancio mistico nel cinema, rimane profondamente ancorato al lato più buio e desolato degli Stati Uniti. Meglio: è solo da qui che un tale slancio può partire. Uno sguardo che lo porta a districarsi con noncuranza tra registro alto e basso. A mostrare l’invisibile, ciò che trascende, attraverso la materialità più abietta, in una vicinanza poetica al primo Scorsese, certo, ma anche a un cinema come quello di Abel Ferrara (L’angelo vendicatore, Il cattivo tenente, Fratelli, Paura su Manhattan, il cui titolo, per ricollegarci all’incipit di questo articolo, è proprio Fear City). Un’idea rigorosa di cinema che lo rende un nome atipico della New Hollywood. Ma qui, rispetto a buona parte della filmografia successiva, la violenza è quasi sempre trattenuta, pronta a implodere, meno esibita nella sua sanguinosa irruenza. Anche quando il sindacato vuole colpire i propri nemici nella maniera più efferata possibile, come nella scena della verniciatura blu, non si vedono assassini. Tutto è affidato all’impersonalità di un macchinario, in una sequenza in cui si può sentire solamente il sonoro diegetico, il quale acuisce il senso di abbandono. Ciò che rimane è la percezione della solitudine e dell’isolamento che emerge anche in un contesto apparentemente collettivo come quello della fabbrica. Un ambiente dove i legami sociali sono illusori.
Nell’America di Schrader non c’è posto per l’amicizia, solo per la sopravvivenza. In questo senso, i tre protagonisti sembrano una versione primigenia di Troy, Mad Dog e Diesel in Cane mangia cane con quasi 40 anni d’anticipo. Un arco di tempo in cui Schrader ha filmato personaggi che si sono mossi all’interno di un capitalismo in mutamento. La filmografia di Schrader, cresciuto sotto una rigida educazione calvinista, senza mai vedere un film fino a 17 anni, sembra una lunga fuga da un mondo antico, quello del capitalismo protestante che aveva innervato l’America della sua adolescenza. Ma ciò che c’è dopo è il caos del mondo post-fordista, postmoderno e pornografico. Come nel cammino all’inferno di Jack Van Dorn in Hardcore, per cercare la figlia scomparsa. Dal conservatorismo repressivo dedito al risparmio laborioso di Grand Rapids in Michigan (vera città di nascita del regista) all’edonismo libertario e marcio della Los Angeles degli snuff movie dedito al godimento e al dispendio.
Lo spazio della violenza, la violenza dello spazio
In Tuta blu siamo ancora lontani dalle incursioni sulla decadenza della rappresentazione, sull’esplosione dell’ossessione meta-scopica (Auto Focus), sulla morte del cinema, o quantomeno di un certo tipo di cinema (The Canyons). Un attimo prima di tutto questo. Schrader è ancora concentrato sulla spazialità. Un tema che già attraversa la scrittura di Taxi Driver. L’automobile come gabbia in una città inabitabile. La violenza di Travis Bickle come fuga. In questa America raccontata da Schrader lo spazio urbano non esiste. Il cielo di Tuta blu è costantemente coperto dalle nubi. Detroit è uno scheletro di fabbriche. Si parlava di isolamento, che qui si fa geografico. Non ci sono spazi da poter vivere. I personaggi non possono far altro che seguire traiettorie fisse, triangolazioni meccaniche casa-fabbrica-pub. La ripetizione dei gesti li accompagna anche fuori dall’orario di lavoro. Come Zeke, che guarda tutto in tv «anche se fa schifo. Io la accendo anche quando non c’è niente, guardo anche l’intervallo» perché ci ha messo «tre anni a pagarla». La violenza – come in tutto il cinema di Schrader – è allora l’atto necessario per rompere la gabbia. In una scena un operaio, stanco di farsi fregare i soldi dalla macchinetta dei drink, prende un montacarichi e la distrugge. Non c’è nulla di politico, non è un atto luddista come potrebbe sembrare. L’operaio non se la prende con la catena di montaggio, con i macchinari della fabbrica che lo disumanizzano. Il suo è un gesto di violenza anarchico e inutile contro il divertissement che lo tiene docile per continuare a essere produttivo. Un’azione sempre disperata, a volte senza senso, per cercare di rompere uno status quo. Basti pensare al Wade di Affliction, seduto al tavolo affranto, il capannone in fiamme al cui interno giace il cadavere del padre che si intravede dalla finestra. Come se per Schrader la violenza fosse l’atto creativo per eccellenza. Ma è, appunto, anche il motore delle conseguenze che possono distruggere il singolo o avviare un percorso di espiazione. Espiazione che può passare anche attraverso il fallimento. In Tuta blu l’agire innesca il disastro, la rottura dell’apparente vincolo d’amicizia, la fine dell’ingenuità. Per il personaggio di Pryor – un’interpretazione straordinaria, che ne svelò le potenzialità attoriali ben al di là della figura del comico per cui era celebre – significa accettare la ferocia, farne parte, pur rimanendo uno sconfitto.
«Mettono i vecchi contro i ragazzi, gli anziani contro i nuovi, i negri contro i bianchi… e tutto per tenerci bloccati». È il discorso di Smokey che viene ripetuto nel finale. Ma, ancora una volta, qui non c’è una presa di posizione civile da parte del regista. Il personaggio, non a caso, aggiunge subito: «non lo capisci Zeke? La politica non cambia niente. I soldi cambiano la vita». Come una sottotraccia ricorrente nella filmografia, il conflitto è endemico alla vita. Troppa consapevolezza per considerarlo un’opera minore, troppo abbozzati alcuni aspetti che verranno sviluppati successivamente per considerarlo un manifesto. Tuta blu rappresenta più che altro un tassello fondativo di un percorso cinematografico senza compromessi.