Tutti vogliono qualcosa
Richard Linklater riprende il suo racconto sulla condizione umana dal punto in cui lo aveva interrotto in Boyhood.
Mentre il tempo sempre troppo breve del di-vertimento – quel groove che spezza il ritmo monotono dei doveri, il solco vinilico in cui la concentrazione volge altrove per sfuggire ad una costrizione che non è più vita – si dilata senza freni, la vita dei giovani, quella vera, pura e spensierata, si distende molle e incurante su scuri toroidi galleggianti con una birra in mano, e si lascia cullare dal fiume della giovinezza.
La mente vaga alla ricerca di senso, si perde docile tra note di vecchi dischi e inalazioni di marijuana. Si espande come gas incolore, infilandosi nelle fessure tra i ricordi, nelle giunture tra i passaggi esistenziali. Si ramifica, entra indifferentemente nei disco-club, nei country bar, ai concerti punk, alla ricerca di un’identità che la incornici e le dia sostanza, si fa significante in continuo mutamento nella speranza di diventare, un giorno, finalmente, significato.
L’ultimo film di Richard Linklater, Tutti vogliono qualcosa, inizia proprio laddove il lunghissimo esperimento di Boyhood finisce: appena prima dell’inizio del college, il tempo che precede il cambiamento – che in questo caso coincide con l’inizio del semestre universitario, simbolo della futura, e sempre crescente, tabulazione delle responsabilità – e riannoda spiritualmente i fili con La vita è un sogno e con il film-manifesto della generazione X, Slacker.
Tutti gli adorabili “fannulloni” di Linklater ne vogliono un po’: di vita, s’intende; di sesso, di sballo, di divertimento, di libertà. Più avvertono il ticchettio del tempo che li separa dall’inizio della routine scolastica, più il richiamo del mondo normalizzante degli adulti si fa minaccioso, e più il loro desiderio di godere delle gioie dell’esistenza si fa appetito smodato nella consapevolezza della loro fugacità. A metà strada tra jocks e atleti, tra ragazzi e uomini, in un limbo tra serio e faceto, tra realtà e finzione (il trentenne un po’ hippie che cerca di sfuggire al processo di crescita mescolandosi tra i giovani studenti) e tra filosofia spicciola e vera e propria paraculaggine, matricole e veterani che compongono la squadra di baseball di una non meglio identificata università del Texas all’inizio degli anni Ottanta spadroneggiano dentro e fuori dal campus con tutto l’ardore dei vent’anni.
Ma laddove i ragazzi di La vita è un sogno si ribellavano semplicemente alle forze oppressive della scuola e della famiglia in un momento in cui si subiscono passivamente le imposizioni esterne, il pitcher Jake Braford (Blake Jenner) e i suoi nuovi compagni si ritrovano per la prima volta realmente fuori di casa, e sono chiamati a scegliere autonomamente la propria rotta in un oceano di libertà dove potrebbe accadere di tutto. Naufragare, lasciarsi andare alla corrente o raggiungere l’isola dorata del successo, dell’autorealizzazione, della felicità: tutto dipende dalle proprie scelte e dal fato. Tocca a loro instradarsi autonomamente verso il futuro orgiastico della “luce verde”, cercando di afferrarlo.
E così tra cameratismo e bullismo, tra spacconerie e fragilità, ognuno di loro sente il bisogno di affiliarsi, di appartenere ad un determinato gruppo sociale, subendone i riti di iniziazione che sanciscono l’uscita definitiva da uno status in funzione dell’entrata in un altro.
Tutti vogliono qualcosa è una delicatissima commedia coming-of-age, un film su come si diventa grandi senza dimenticare di essere stati piccoli, sentendosi sul collo il fiato dell’influenza sociale, della competizione, di fantomatici osservatori sportivi ben nascosti. Imparando anche a conformarsi e ad aggregarsi per sentirsi accettati e protetti, per poter vivere serenamente in quella che è sempre stata una “nazione di joiners”, di associati, confraternite e club (a tal proposito basta rileggere alcune illuminanti pagine di Tocqueville).
Ma, come in tutti i film di Linklater, i protagonisti non compiono scelte forti, non sono testimoni di epifanie altamente significative, non raggiungono particolari obiettivi, né prendono decisioni che cambiano il corso della loro vita. Abitano in scatole di tempo ben delimitate dove vivono in uno stato sospeso di contemplazione e di possibilità, camminando (e non correndo) verso qualcosa che deve ancora prender bene forma e che è sempre, inevitabilmente in fieri: il loro futuro.
Le loro identità sono come il post-punk che caratterizza il periodo storico in cui si ritrovano a vivere: in costruzione. Si plasmano, proprio come il nuovo genere musicale, attraverso la letteratura, la musica, la filosofia, i riferimenti continui alla cultura pop e, soprattutto, all’esperienza del momento.
Il loro è un continuo tentativo di scacciare via l’incubo del fallimento e di sentire la luce verde che filtra dalla porta del futuro, di trovare, come dice il filosofo-stoner del film, Willoughby (Wyatt Russell), mentre Fearless dei Pink Floyd risuona tra vhs de Ai confini della realtà e amplificatori, “le tangenti all’interno della struttura”, di scoprire se stessi “nello spazio tra le note”. È proprio entro questo perimetro che il cinema di Linklater si muove, seguendo come un carrello che si sposta silenzioso, lateralmente, per riprendere il passaggio del tempo e il respiro delle vite umane.
Nel corso di una carriera lunga ormai un quarto di secolo, dopo aver realizzato film molto diversi tra loro, Linklater ha mantenuto un senso di integrità invidiabile, lavorando con una grande varietà di budget, generi e soggetti, tra progetti personali e proposte provenienti dall’esterno. Dai primi lavori indipendenti (Slacker e Wacking Life) e film a basso budget prodotti dagli studios (La vita è un sogno) ad opere uscite grazie al supporto di sussidiarie indipendenti degli stessi (Prima dell’alba, Prima del tramonto, A Scanner Darkly) fino a progetti commerciali (School of Rock, Bad News Beards), il regista texano rappresenta il simbolo di una scorrevole interdipendenza tra il film artistico, d’avanguardia, di nicchia e quello commerciale. Sta lì a dimostrare la possibilità di trovare il proprio equilibrio dentro la struttura a tratti opprimente del cinema industriale senza incappare in inconcepibili limitazioni al proprio estro creativo e alle proprie esigenze narrative.
Perché a Richard Linklater interessa soltanto una cosa: la condizione umana, intesa come lo svolgersi della vita e, conseguentemente, la coscienza che gli uomini hanno del suo fluire. E il suo miracolo sta nell’essere capace di raccontarcela esattamente così come è: sfuggente, inafferrabile, insoluta.