Questa è la storia del sogno americano. Anzi no, questa è la storia di come il sogno americano squarcia e opprime le esistenze di ignare vittime sacrificali, sotto mentite spoglie di un’opportunità di una vita migliore. Le vittime sacrificali sono le migliaia di lavoratori che ogni anno dal povero Messico si incamminano per giorni, “scortati” da contrabbandieri senza scrupoli che li traghettano in America. Una volta lì, la maggior parte finisce all’UTB, laboratorio ultrasettico dedito alla macellazione e al confezionamento di carne bovina, ma non solo, destinata ad infarcire i McDonald’s e i Burger King del caso. Ma non solo. Questa è anche la storia di come multinazionali assetate di soldi abbiano non solo modificato ma cambiato per sempre il fare agricoltura nel nuovo continente, inquinando le falde acquifere dei luoghi d’allevamento irreversibilmente, stressando allo stremo poveri bovini costretti a (non) vivere in gabbie da batteria in attesa del macello. E poi questa è storia anche nostra, di tutti e di ciascuno, perché se è vero che la nostra vita passa anche e soprattutto attraverso il cibo, allora ciò che mangiamo può e deve dirci chi siamo, e farci ragionare che così non si può andare avanti, con sempre più gente che mangia ciò che non sa, ma che chimici di professione hanno creato per loro.
La storia di oggi, Fast Food Nation, parte dall’omonimo libro di Eric Schoessler, dal quale il regista Richard Linklater – Boyhood, Prima del’alba, Prima del tramonto e School of Rock – ha tratto uno spietato e crudo spaccato su ciò che sta dietro ad un bancone di un fast food, il Mickey’s in questo caso, dove comodi esercitiamo il nostro diritto di consumatori globali. Protagonista è Don, che di mestiere fa il vicepresidente marketing (parola, secondo chi scrive, da abolire ieri) di Mickey’s appunto, che ha svoltato la carriera inventandosi il “Big One”, un hamburger con quel qualcosa in più che ha di fatto incrementato e di molto le vendite. Ma ad un certo punto arriva l’analisi di alcuni studenti di una facoltà di microbiologia su alcuni cibi fast food presi a campione, e risulta che dentro il Big One ci son tracce di sostanze fecali. Allora inizia il viaggio di Don, mandato dal suo capo a sincerarsi della situazione presso la UTB e inizia anche il film, un film dai nobili intenti, sulla falsa riga di Super Size Me, altro prezioso documento di denuncia – sul mondo di McDonald’s in quel caso – ma che a differenza dell’opera di Morgan Spurlock non ha il graffio e l’incisività promessa. E questo in primo luogo per l’eccessivo intreccio di storie e sottostorie del film, che altro non fanno che appesantire il tutto, e in secondo luogo il minutaggio eccessivo che fa perdere l’attenzione su un tema invece molto importante. E infine, secondo chi scrive, la scelta del taglio narrativo, a metà tra fiction e realtà, dà un confezionamento schizofrenico al tutto, creando delle serie difficoltà sulla fruizione e ponendo interrogativi sbagliati. D’altronde scorrendo la filmografia del 50enne regista texano si può registrare un percorso non del tutto contiguo verso i medesimi lidi, il che non per forza deve essere un male, ma l’avvicinamento ad un certo cinema d’impegno politico alla Michael Moore non sortisce l’aspettato effetto, nonostante Fast Food Nation resti comunque un film da recuperare per chi non l’avesse ancora visto.
Su tutto comunque restano diverse domande che non dovremo mai smettere di porci. Perché amiamo tanto mangiare nei fast food? Cosa c’è veramente in quel panino di dieci centimetri di diametro che proprio non riusciamo a tenere lontano dal nostro stomaco? L’E. coli 1057-87, tanto per dirne una, un batterio che deriva dal mangime con cui vengono allevati gli animali destinati ai fast food, i quali a loro volta derivano in molti casi dagli scarti di macellazione degli animali stessi. O i centinaia di additivi chimici creati in laboratorio per il gusto barbecue, che fa sembrare infinita la distanza temporale di quando nei primi ristoranti McDonald’s le patate si pelavano e friggevano in loco e la carne veniva macellata fresca, e l’hamburger non era il prodotto di centinaia di scarti di diverse mucche sparse per il globo intero. Ecco, se davvero (?) non si possono boicottare i 30.000 McDonald’s o Burger King o KFC, quello che sia, sparsi per tutto il mondo, che arrivano a conformare il modo di mangiare delle persone a ogni latitudine, ricordiamo allora lo slogan di una recente campagna Mc – ”un sapore per tutto il mondo” –, alla pari della conformazione dell’estetica e dei consumi in generale traghettata dalla televisione e veicolata dai centri commerciali di rapidissima e continua apertura. Scegliere cosa mangiare si può, scegliere cosa consumare SI DEVE.