Tutto può cambiare

La seconda opera del regista di Once funziona, ma non convince

Ogni cosa è al suo posto in Tutto può cambiare, nuova commedia di John Carney, regista del pluripremiato Once (Una volta). Il film, d’altronde, si regge sull’impalcatura di uno sviluppo narrativo estremamente simile all’opera precedente, riproponendo uno schema straordinariamente riuscito e inserendolo all’interno di un nuovo contesto produttivo, culturale e urbano. Grande protagonista del film, non a caso, la città di New York, le sue eclettiche ambientazioni, i suoi colori e una vitalità che trapela in ogni vicolo trasandato, ogni sudicio locale, ogni sporca fermata della metropolitana.

La pellicola narra dell’incontro di Greta (Keira Knightley) e Dan (Mark Ruffalo), casuale e fondamentale per il destino dei due protagonisti. Greta, infatti, approda negli USA grazie al successo del fidanzato musicista Dave (Adam Levine dei Maroon 5) il quale, ubriaco di celebrità, fugge inseguendo il brivido dell’infatuazione per un’altra donna. Dan, d’altro canto, produttore musicale disilluso e depresso, ha alle spalle un matrimonio fallito (con la splendida Catherine Keener), un rapporto difficile con la figlia adolescente Violet (Hailee Steinfeld) nonché una carriera in rapido declino. Inseriti nell’immenso teatro cittadino della Grande Mela, i due protagonisti sfrutteranno l’intensità della loro unione per capovolgere la loro condizione personale: registreranno così un album all’aperto, sfruttando i rumori e l’energia di una metropoli in continuo movimento. Un’avventura che si rivelerà terapeutica per i due, i quali riscopriranno il valore della condivisione di un sentimento, una melodia in cui tutto è perfettamente calibrato, anche le note stridenti, in un rapporto straordinariamente intenso, non necessariamente turbato dal vincolo sentimentale. A volte basta uno sguardo - ci insegna Carney - a colmare un vuoto che sembrava sconfinato.

La magia generata dall’incontro musicale tra i due, però, soffre di alcune stonature, legate non tanto alla storia di Dan e Greta, che nella sua semplicità si dispiega elegantemente e appare matura ed emozionante, quanto a un discorso più ampio che trapela nel sottotesto. Il regista, trovandosi su territorio americano, ha chiaramente operato delle scelte di convenienza legate a logiche di mercato e imposizioni produttive. Operazione lecita, ma che poco si sposa con il messaggio di Carney, che si configura in ultimo come un inno all’autenticità e alla musica (o al cinema) indipendente. Una musica a chilometro zero, che non sia filtrata dalle logiche delle case di produzione ma che arrivi direttamente al fruitore. Idea bella e condivisibile, per quanto resa con leggerezza e superficialità, che smorza però l’armonia di una pellicola che risponde a logiche diverse e dimostra ben altre ambizioni. Così, a un’attenta analisi, ci si accorge che ogni nota eseguita durante lo svolgimento del film ha un retrogusto artefatto e costruito, sintomo di un perfezionismo dell’autore ma anche cagione di un allontanamento dalla forza comunicativa dell’improvvisazione, concetto di cui Carney con questo secondo film si fa l’immeritevole portavoce.

Tutto può cambiare si configura così come un’opera sospesa: troppo smaccatamente ingenua per inserirsi in un panorama di cinema d’autore, troppo densa per essere relegata a mera commedia made in USA. L’incrocio fortuito di destini si rivela così come null’altro che un piacevole gioco di prestigio, rivendicando con frivolezza la poesia dell’attimo, la nota sospesa, l’emozione. Un momento che si può cogliere, forse, una sola volta, Once.

Autore: Lulu Cancrini
Pubblicato il 13/10/2014

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