EROTIC THRILLS - Body of Evidence
All’alba del cinema postmoderno, Uli Edel firma una pellicola dal lucido passo argomentativo, che osserva un archetipo spirare e rinascere. Tra iconografia della femme fatale e dimensione performativa della sessualità.
[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].
Da un certo punto di vista, Body of Evidence è un fine esempio di cinematografia della crisi. Il film di Uli Edel esce infatti in un particolare contesto limbico che interessa le coordinate del noir.
All’inizio degli anni ’90 il topos della femme fatale non esiste più. Secondo alcuni (Bocchi, 2020), il modello appare disinnescato in Rischiose abitudini (1990) ma la crisi era già stata agevolata dalla ridefinizione che in quegli anni stavano subendo alcuni dei tratti essenziali della sua identità, come il corpo e il sesso, che si fanno artefatti, spettacolarizzati. Inserito alla perfezione in questa sorta di inter-regno tra una concezione passata di una figura del noir e una futura, forse già in arrivo, Body Of Evidence prende parte a una sorta di dibattito linguistico. Il film di Edel si domanda infatti come raccontare, al cinema, il mutamento della femme fatale nei momenti in cui è in atto, e non è probabilmente casuale che nel ruolo principale ci sia proprio Madonna, curatrice in quegli anni del progetto Erotica, attraverso cui ha raccontato i mutamenti dell’erotismo e la sessualità come spettacolo.
Body Of Evidence tradisce i suoi intenti analitici fin dalla storia che racconta. Nella parabola di Rebecca, sotto processo perché sospettata di aver ucciso il facoltoso amante in un gioco erotico, e dell’avvocato Frank Dulaney, che si incarica di difenderla, c’è la volontà di spogliare la femme fatale dei suoi tratti essenziali: Rebecca forse non ha ucciso il suo amante ma soprattutto, se è lei l’assassina, la sua arma non è stata il sesso. Ecco che in una manciata di sequenze la diegesi manda in pezzi non solo un archetipo ma anche le fondamenta della sua rappresentazione.
Si è utilizzato il termine rappresentazione non a caso: il film di Edel si muove infatti in un panorama di immagini depotenziate dalla postmodernità, in cui tutto ciò che si vede è artefatto e lontano dalla sua forma reale. Colpisce ad esempio quanto, almeno inizialmente, il rapporto tra Rebecca e lo spettatore si basi su una fitta rete costruita su cliché relativi alla figura della femme fatale, un tessuto di attese basato su un determinato incastro di battute e comportamenti, che la donna tuttavia sovverte nel giro di una manciata di inquadrature. Lo stesso processo è inoltre fondato su una teatralizzazione del caso giudiziario, e la sessualità incarnata da Rebecca è legata al sadomaso, una dimensione in cui erotismo, performance e gioco di ruolo dialogano di continuo. Questa rilettura iconografica della femme fatale porta giocoforza anche a un ripensamento della pulsione scopica, altro elemento venuto meno dopo dalla crisi del topos.
Attraverso l’atto sessuale Rebecca vorrebbe non soltanto ricostruire lo sguardo che l’uomo pone su di lei ma anche dominarlo e tuttavia è indubbio che la donna stia tentando di riprendere il controllo di un’entità ormai in pezzi, inerte, eco frammentaria che si ritrova quando i detective interrogano Rebecca sui dettagli pruriginosi della sua sessualità, o vuota immagine televisiva incapsulata nello schermo che manda in loop il nastro registrato dell’ultimo rapporto sessuale della donna. La destrutturazione della pulsione scopica è solo il preambolo della completa messa in scacco del rapporto di dominanza di Rebecca su Frank. La donna è infatti sottomessa all’uomo in tribunale e solo apparentemente dominatrice a letto, dato che il sesso per lei è più simile a una farsa che a un vero atto di dominazione. Ciò che rimane della femme fatale originaria non è dunque altro che un detrito riconfigurato dal postmoderno: il filmico rilegge Rebecca attraverso un filtro retrò e le poche concessioni alle convenzioni del genere sono schegge che attraversano rapide lo sguardo dello spettatore. La protagonista incarna i tratti della dark lady solo nell’ultimo atto ma il personaggio annaspa evidentemente nell’archetipo. In fondo è tutta una recita, la riemersione di un altro elemento di risulta destinato a cadere nell’oblio da cui è venuto. Non stupisce, in fondo, che il punto d’arrivo di questo tour de force sia quel “I fuck” che la donna pronuncia quando Frank scopre il suo vero piano, un’affermazione programmatica che svela quanto la femme fatale sia ormai ridotta a mero oggetto/funzione.
Tra le sue derive kitsch, Body of Evidence ha il coraggio di osservare ciò che rimane di un archetipo con particolare lungimiranza. Uli Edel usa i mezzi del nascente cinema postmoderno con spudoratezza, rendendo l’atto del prelievo parte di un ragionamento più ampio e anticipando in questo il cinema teorico dei pieni anni ’90 di De Palma e Bigelow. Body of Evidence studia ciò che è stato ma ha il coraggio di ipotizzare la strada per ricostruire quel modello. Emblematico che la storia di Rebecca termini con la sua caduta in mare, in un tuffo che la uccide ma che al contempo pare purificarne i tratti essenziali per mutarli, un anno dopo, in quelli di Catherine Tramell.