Una folle passione
Un racconto piatto, che Susanne Bier cerca invano di accendere forzando l'intensità emotiva dei personaggi, fino a toccare il parossismo.
Il lettore più mite potrà rimanere perplesso dalla definizione estremamente drastica che ci apprestiamo a dare dell’ultimo film di Susanne Bier, ma se chi scrive sente di dover adoperare la parola disastro è perché nessun altro termine può rendere in maniera più efficace i problemi insiti nella struttura di Una folle passione. Ambientata nell’America appena risvegliatasi dal crollo economico del 1929, l’opera racconta le vicende di una coppia senza scrupoli decisa a salire la scala sociale a costo di bustarelle, e, all’uopo, eliminazione fisica di chiunque intralci la loro strada. L’amore fra Serena e George Pemberton, nato al primo sguardo e divampato in un rapporto quasi simbiotico, si fonda sul comune carattere spregiudicato perfettamente espresso in un ambiente selvaggio – Nord Carolina – che l’impresa del legno appartenente all’uomo tenta di addomesticare disboscando il terreno per costruirvi una ferrovia, pur contrastato negli affari dal progetto avversario di un parco nazionale. L’unione perfetta fra i due subisce la prima crepa quando, impossibilitata dall’avere bambini, Serena inizia a nutrire un odio intenso per il figlio illegittimo del marito, avuto prima del matrimonio da una cameriera del posto: pronta a eliminare qualunque ostacolo attenti alla sintonia col suo amato, finirà per mostrare all’uomo il lato più oscuro del suo violento temperamento.
Tratto dall’omonimo romanzo di Ron Rash, Una folle passione prende due personaggi potenzialmente interessanti per la loro natura brutale e li mortifica banalizzandoli in una costruzione piatta, che nulla dice dei loro sentimenti, a parte trite e ritrite dichiarazioni amorose e innumerevoli amplessi sparsi a caso per tutto il film. L’incapacità narrativa della regista va ricercata nel pessimo montaggio in quanto sbagliare proprio la composizione del testo filmico pregiudica ogni credibilità della storia. Perché Serena e George si amano? È un postulato offerto senza alcuna spiegazione o almeno, uno straccio di una possibile immedesimazione, al cui posto resta una verità spiattellata allo spettatore insieme ad altri piccoli dettagli senza senso – un puma inseguito per tutto il film senza alcun motivo specifico ne è l’apice surreale - che rendono la visione dell’opera un’esperienza involontariamente comica. Vittima maggiore ne risulta una sprecata Jennifer Lawrence, e il suo personaggio sulla carta tanto intrigante – una donna indipendente, audace, che nasconde una fragilità profonda – che è un peccato vederlo sviluppato secondo i parametri stereotipati di una femminilità distruttiva in virtù della sua emancipazione. Come a dire, lasciale libere, e si riveleranno delle isteriche.
E pensare che il film poteva davvero offrire uno sguardo diverso, pur dentro le dinamiche del tradizionale melò, sulla voracità umana sostenuta da un certo capitalismo che vede nell’arricchimento personale l’apogeo del progresso moderno. Il sogno americano tradotto in una corsa sfrenata verso il danaro, indifferente verso ogni altra questione collaterale, è rappresentato dai Pemberton e dai loro impiegati come persone che costringono l’ambiente a sottomettersi alle loro esigenze individuali. È una storia che va avanti fin dalla prima industrializzazione, cristallizzata nel eterno confronto uomo/natura, quel prendere a man basse dalla Terra che prima o poi porta il conto: inevitabile all’interno della logica evolutiva umana, ma anche foriero di dibattiti etici, oltre a ulteriori discorsi meramente più utilitaristici, che a esser ironici potremmo sintetizzare nell’antica domanda Meglio un uovo oggi o una gallina domani?
Una folle passione poteva parlare della fame infinita di un’’umanità, avida di amore, protezione, potere fino a cannibalizzarsi: si è limitato a buttar giù un racconto sconnesso, nevrotico ed emotivamente freddo. Dal punto di vista cinematografico, un vero fallimento.