C’era un gagliardo settantacinquenne alle spalle di Caterpillar, che definimmo su queste stesse pagine “forse il film antimilitarista più crudo, essenziale e necessario nella storia del cinema, sicuramente impossibile da dimenticare”; giudizio pesante ma quanto mai sentito
È lo stesso cineasta giapponese, Koji Wakamatsu, il creatore di quell’affresco storico insieme sublime e straziante qual è United Red Army. Tre atti che architettano tre ore di visione e pesano come ore passate sui libri, immersi fino all’apice in una storia non nostra: vicina eppure non sempre conosciuta. La storia è quella dell’Armata Rossa Giapponese, unione di studenti e lavoratori, contadini e giovani idealisti decisi a rovesciare l’ordine costituito formatosi seguendo quel binario storico così fortemente segnato dal secondo conflitto mondiale, dal rilievo così grande dell’esser vincitori o vinti. Il Patto Tripartito condusse il Giappone nel baratro della disfatta bellica con conseguente assoggettamento alle forze vincitrici; è da qui che parte il livore degli insorti: può un paese tanto legato alle sue centenarie tradizioni porre l’altra guancia dirimpetto al mostro capitalista? Le strade si fanno terreno di faida tra manifestanti e rappresentanti delle istituzioni, i monti teatro di un feroce addestramento per allenare il corpo più che la mente.
Fortissimamente idealisti, orgogliosi, irremovibili ma impreparati. Poi formati, addestrati, indottrinati. Infine pronti, sfrontati, rivoluzionari. United Red Army è – come dicevamo – crudo e penetrante scorcio storico, grandangolo su quel periodo tanto isterico e convulso ma senz’altro determinante quale furono gli anni che dai Sessanta condussero al decennio successivo. Con toni che volteggiano continuamente tra il documentario e la fiction, il cineasta nipponico tiene le redini del suo racconto esplorando la storia senza mai apparire sfrontatamente divulgativo, modellando personaggi squisitamente destabilizzati e ferocemente destabilizzanti, sempre inseguendo modelli narrativi differenti puntualmente raggiunti secondo la necessità. Immagini di repertorio dialogano – particolarmente nel primo atto – con interpreti di un ruolo, voce off ci immerge nell’atmosfera di un Giappone sessantottino mentre dialoghi gravidi d’ideologia ci riconducono nella finzione. Il palleggio continuo tra differenti forme espressive porta alla mente altri meravigliosi esempi cinematografici di epoche diverse, regalando una visione sorprendentemente trascinante nonostante la durata.
La forza della ribellione sgorga dalle immagini e, così come – seppur di stampo dissimile – accadeva ne La cinese di Jean-Luc Godard, United Red Army strattona la coscienza dello spettatore – specialmente quella di un venticinquenne universitario, seviziato nelle sue aspettative e aggrappato alle sue illusioni –; lascia che il materiale messo a sua disposizione lo accompagni in una riflessione che non può perire sotto i colpi dell’indifferenza, che non può esaurirsi nei 190 minuti di visione, che non può non portare all’idea che – ovunque – c’è un tempo in cui l’accidia e la superficialità non l’ebbero vinta. Non invoca i forconi Wakamatsu, ma qualsiasi cosa faccia, è di quelle che ti portano a fissare il soffitto con occhi spalancati.