Un'ora sola ti vorrei

Possibile che non mangiate mai? Anche tu Alina, mangia

Una voce registrata su un nastro rovinato. Un uomo e una donna, due genitori che stanno lasciando un messaggio audio per la figlia, giocando a fare la parte della madre e del padre apprensivi che rimproverano continuamente la loro bambina. Poi subito il tono si fa dolce: “Che canzone cantiamo?”. Vogliono rassicurarla, divertirla, lasciarle un ricordo che la faccia stare bene anche quando non saranno con lei. E allora la madre intona un ritornello, quello di Un’ora sola ti vorrei, canzone che dà il titolo a questo film, opera prima di Alina Marazzi.

Solo che questa ninna nanna malinconica, questa melodia antica, si trasforma ben presto nell’angosciante presagio di un dramma. Il dramma di una madre con problemi psichici che segnerà, col suo suicidio, l’infanzia e la crescita di Alina, autrice di questo documentario a metà tra diario e fiaba. Ha inizio così questo atipico e toccante tentativo di ricostruire, attraverso vecchi filmati di famiglia e altri documenti visivi, la vita della propria madre, immaginando un ultimo messaggio lasciato come segno di amore e, forse, come richiesta di perdono.

Non siamo più naturalmente ai tempi de L’Age d’Or, quando il montaggio di materiali di repertorio abbinato ad una determinata colonna sonora mirava a dimostrare le infinite capacità dell’occhio cinematografico di reinventare la realtà e di attribuirle nuovi significati. L’utilizzo di filmati in Super8, di fotografie, lettere e stralci di diari, non ha altra ambizione se non quella di raccontare una storia, forse tradendo la verità, aggiungendo o togliendo informazioni, chissà. Quel che conta è che il linguaggio adottato dalla Marazzi ha indubbiamente una sua potenza autonoma, che prescinde dal materiale, senza dubbio interessante, che l’autrice ha meticolosamente selezionato e ordinato. Questo equivale a dire che non farebbe differenza che la storia di sua madre fosse vera o meno, perché l’effetto drammatico e poetico di questa favola tetra sarebbe comunque raggiunto.

Senza voler dunque paragonare l’operazione della Marazzi a quella di Buñuel, possiamo dire che anche in questo caso il messaggio del film è reso efficace dalla volontà di far rivivere delle immagini e delle parole morte, portando lo spettatore ad intromettersi a forza, ad entrare in modo quasi crudele all’interno di una storia più che mai privata. E proprio la morte finisce col dimostrarsi l’elemento centrale dell’opera. È la morte che si nasconde dietro ogni fotogramma, dietro ogni frase, persino dietro una canzone in apparenza “leggera”.

Il film ha ottenuto la menzione speciale della Giuria al festival di Locarno e il premio come miglior documentario al festival di Torino. Grande successo ha riscontrato anche il lavoro successivo della Marazzi, Vogliamo anche le rose, la cui recensione è in uscita su Point Blank la prossima settimana.

Autore: Tommaso Triolo
Pubblicato il 13/08/2014

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