Nella prima, deludente giornata della 69 edizione della Mostra del Cinema di Venezia sono passati al lido film estremamente diversi l’uno dall’altro, come a voler evidenziare sin dalle prime battute lo sguardo cinefilo e trasversale del nuovo direttore Alberto Barbera, chiamato quest’anno al difficile compito di sostituire Marco Muller. Sugli schermi del festival abbiamo avuto modo di vedere sia opere dalla vocazione puramente commerciale come Bait 3D di Kimble Randall – che (ri)parte da Spielberg per aggiornare alcune ossessioni del cinema australiano (la lotta tra l’uomo e la natura, il primato delle pulsioni sulla ragione) – che film più marcatamente d’autore come Izmena del russo Kirill Serebrennikov e Superstar del francese Xavier Giannoli.
A metà strada tra queste due tipologie filmiche si colloca invece il film d’apertura, The Reluctant Fondamentalist (Il fondamentalista riluttante) di Mira Nair (vincitrice del Leone d’oro nel 2001 con Moonson Wedding), che affronta il difficile tema dell’attentato alle Torri Gemelle addotando lo sguardo di un ragazzo pakistano perfettamente integrato in America che vede la sua vita sgretolarsi in seguito al tragico evento. Il punto di vista della regista indiana si pone esattamente a metà tra un approccio di genere, che guarda al cinema spionistico con tanto di doppi giochi, intrighi, scomparse misteriose ed interrogatori, e un altro più vicino al melò, con la storia d’amore tra il giovane Changez Khan e la fragile Erica. E’ in questa scissione che risiede il problema principale del film, in un’indecisione di fondo rispetto al tono da adottare: le due linee narrative faticano a fondersi, rimanendo di fatto separate. Mira Nair accumula talmente tanto materiale che da un certo momento in poi non è più in grado di governarlo. Così la parte newyorchese e quella pakistana sembrano appartenere quasi a due sguardi diversi: uno più muscolare (sebbene totalmente inadatto a gestire le sequenze più concitate) e un altro più dolce e venato di malinconia, in una dimensione doppia (politica e amorosa) che risulta però l’unica possibile per una regista come lei, da sempre incapace di andare oltre la superficie delle cose. Il suo sguardo dichiaratamente ecumenico prende le mosse da uno spunto originale – mostrare l’attentato alle torri da una prospettiva straniera – ma poi non ha il coraggio di osare, preferendo piuttosto colpire gli opposti estremismi (o fondamentalismi). Peccato che il messaggino finale da libro cuore “bisogna accettare e comprendere la complessità” rimanga una semplice dichiarazione d’intenti: nel piatto ed orizzontale film della Nair a dominare è piuttosto la prevedibilità e la banalità delle situazioni raccontate.
Decisamente meglio è andata invece con Bait 3D, opera come detto in precedenza puramente commerciale che ha avuto quantomeno il merito di divertire il pubblico, intrattenendolo con una storia infarcita di rimandi e citazioni da Lo squalo e Gli uccelli. Durante una giornata come tante un violento tsunami si abbatte sulla costa australiana distruggendo tutto. Un gruppo di uomini e donne sopravvissuti miracolosamente alla catastrofe rimangono intrappolati all’interno di un supermercato insieme con due enormi squali bianchi. Con un soggetto che non dispiacerebbe a Roger Corman, Kimble Randall fonde vecchie e nuove ossessioni orrorifiche (l’ambientazione claustrofobica, l’incubo apocalittico, l’irrazionalità della natura) riuscendo a mantenersi in equilibrio tra gli sviluppi di genere e gli aspetti ludici derivanti dall’uso del 3D, e al contempo a portare avanti quel discorso sul rapporto uomo/natura da sempre centrale nella cinematografia australiana. Niente di nuovo intendiamoci: siamo nei territori del trash ma quanta energia, quanta autentica passione riesce a sprigionare il film!
Discorso ancora diverso invece per i primi due titoli del concorso: il russo Izmena e il francese Superstar tentano uno la strada della tragedia grottesca, con la storia di un uomo e di una donna che scoprono che i rispettivi coniugi sono amanti, e l’altro quella della riflessione mediale attorno alla misteriosa popolarità di un uomo qualunque, ritrovatosi senza alcuna ragione ad essere idolatrato dal pubblico francese. Dispiace dire che entrambi i film non siano riusciti ad imporsi, per motivi differenti: nel caso di Izmena il problema risiede nella sua sconclusionata sceneggiatura, che pur avendo il merito di battere strade inaspettate alla lunga risulta stancante con i suoi continui cambi di ritmo e le sue scelte imprevedibili che sembrano non portare da nessuna parte. L’impressione che si ha vedendo il film è di assistere ad un grande esercizio di stile realizzato più per mettere in mostra il talento visivo del regista che non per un’autentica necessità. Per quanto riguarda invece Superstar il suo maggior difetto è quello di proporre tutta una serie di riflessioni sulla popolarità ai tempi di internet e sul potere della televisione che arrivano francamente fuori tempo massimo.