Dopo le delusioni del primo giorno, che avevano spinto più di qualcuno a parlare già di edizione in tono minore, ieri si è abbattuto sulla mostra il ciclone Ulrich Seidl con il secondo capitolo della sua trilogia dedicata al Paradiso, e il festival ha finalmente preso il volo.
Con Paradise: Faith il regista austriaco, noto per Canicola (Leone d’argento al Festival di Venezia 2001) ed Import/Export, prosegue il suo discorso sulla ricerca e il bisogno d’amore inaugurato con il bellissimo Paradise: Love (visto e apprezzato all’ultimo Festival di Cannes) spostando il proprio sguardo dai lussuosi alberghi kenioti che facevano da sfondo al primo episodio, agli anonimi caseggiati della periferia viennese. Qui Anna Maria, sorella di Teresa(la protagonista del primo episodio), passa le sue vacanze alternando momenti di preghiera e di sacrificio personali a delle missioni religiose che la portano a compiere dei piccoli pellegrinaggi nei quartieri più poveri della città. Durante questi viaggi la donna si reca di casa in casa munita di una piccola statua della Madonna con l’intenzione di convertire gli atei e (soprattutto) gli stranieri, e alleviare la sofferenza delle persone. Tutto cambia quando un giorno suo marito Nabil, un egiziano di religione musulmana costretto su una sedia a rotelle, fa ritorno a casa dopo due anni di assenza..
Partendo dalla volontà di comprendere “cosa significhi portare una croce”, Ulrich Seidl si confronta per la prima volta nell’ambito del cinema di finzione con il tema della fede, e lo fa con un film duro, se possibile ancora più radicale dei suoi precedenti. Per la prima volta il regista austriaco abbandona quasi del tutto gli spazi esterni per concentrarsi tra le quattro mura dell’abitazione di Anna Maria. Con un rigore e una precisione nella definizione delle geometrie spaziali che ha pochi pari nel cinema contemporaneo, Seidl toglie respiro alle inquadrature, impone uno spazio angusto, quasi sempre filmato frontalmente e in macchina fissa, che si fa spazio rituale nel quale la protagonista compie la propria personale via crucis. La prima inquadratura riassume questo lavoro sullo spazio poi portato avanti per tutto il resto del film: una stanza spoglia nella quale campeggia in alto a destra un grande crocifisso di legno viene occupata dopo qualche secondo da Anna Maria, la quale, dopo aver rivolto alcune preghiere, decide di fustigarsi davanti allo sguardo impassibile del crocefisso. In questa breve ma fondamentale sequenza troviamo presenti gli elementi che più contraddistinguono questa nuova fatica del regista: la negazione di un qualunque dialogo con l’esterno e la predominanza di un unico personaggio, mostrato il più delle volte da solo. Al contrario di Paradise: Love, che pur contando su un solo personaggio forte costruiva la propria parabola a partire dall’incontro con l’altro, in questo caso l’unico dialogo possibile sembra essere quello con Dio. Questa dimensione intima ed estremamente personale permette al regista di variare alcune costanti del suo cinema senza tuttavia snaturarsi. Così il suo sguardo freddo e distaccato trova nell’ultima, splendida sequenza una partecipazione ed una commozione inedita ed inaspettata. Sebbene non mancheranno le polemiche per via di un paio di sequenze decisamente forti (l’immancabile orgia, questa volta filmata in esterno, in un bosco di notte, e una masturbazione con il crocifisso) questa volta siamo convinti che i detrattori avranno vita molto più dura nello stroncare il regista, perché se è vero che tanto la visione dell’esistenza umana che la particolare idea di cinema di Seidl rimangono intatte e ribadite con uguale forza rispetto al passato, è vero anche che forse per la prima volta nella sua carriera lo sguardo del regista austriaco trova qui una partecipazione autentica, una corrispondenza sincera con il proprio personaggio e con i suoi tormenti interiori. Probabilmente non basterà a far cambiare idea a quei molti che odiano talmente tanto il regista da stabilire in anticipo la stroncatura ma, per dirla con franchezza, sinceramente non ci interessa. Peggio per loro.
Nella giornata dominata dallo sguardo inquieto di Seidl c’è stato spazio anche per un altro bel titolo in concorso, ovvero At Any Price del regista newyorchese, ma di origini iraniane, Ramin Bahrani. Il giovane autore di Man Push Cart e Chop Chop torna al lido, quattro anni dopo la presentazione in Orizzonti di Goodbye Solo, con una sorta di western contemporaneo che racconta la storia dei Whipple, famiglia di agricoltori in difficoltà per la crisi economica. Oggetto meravigliosamente retrò At Any Price guarda alla grande tradizione del cinema classico americano: per le sue praterie e i suoi enormi spazi che sembrano dialogare con il cielo, per il rapporto tra padre e figlio, così sofferto e viscerale, e poi per l’attenzione che attribuisce ai valori della società americana: la famiglia, l’identità e la fede. Perché pur non sembrandolo ad un primo sguardo, il film è anche una grande opera politica che ragiona sul decadimento degli Stati Uniti; sulla crisi del capitalismo, che spinge gli uomini a correre qualunque rischio pur di preservare il proprio benessere; sul peso del passato e della propria tradizione familiare; sulle colpe dei padri e poi ancora sulla crisi valoriale che colpisce soprattutto i più giovani, e che li spinge a fuggire al di fuori dei confini nazionali come fa il figlio maggiore, presenza fantasma del film. In due momenti speculari vediamo l’intera comunità cantare integralmente l’inno nazionale e dopo recitare il padre nostro, come a tracciare una corrispondenza e a ribadire con forza quali siano i due pilastri sui quali deve continuare a fondarsi la società americana. E poco importa se per raggiungere la serenità i Whipple dovranno macchiarsi le mani di sangue: tutte le rifondazioni, sembra dirci Bahrani, devono compiersi a partire dalla morte. Alla fine, di fronte alla ritrovata coesione familiare viene in mente il magnifico finale de I padroni della notte di James Gray, con i due fratelli finalmente vicini che si dichiarano il loro amore. Anche loro come i Whipple sono dovuti passare attraverso il sangue e il dolore. Le immagini in bianco e nero che aprono i due film e che segnalano il peso di una tradizione con la quale non si può non fare i conti possono finalmente essere archiviate…
Leggermente inferiore rispetto ai due film di cui abbiamo parlato è The Iceman (Fuori concorso) di Avriel Vromiel, metà thriller metà gangster movie ispirato alla storia del sicario Richard Kuklinski, immigrato polacco che in oltre vent’anni di attività ha ucciso circa cento persone ma lasciando completamente all’oscuro la propria famiglia. Il tratto più originale dell’opera risiede nella definizione della vita privata dell’assassino, nel suo rapporto con l’amata moglie e con le figlie, nel modo con il quale riesce a tenere distinte famiglia e “lavoro”. Interpretato magnificamente dal sempre più grande Michael Shannon, l’opera s’impone come un film di genere sbilenco, debole quando deve mettere in scena il lavoro quotidiano del killer, forte quando al contrario si distacca dai solidi binari di genere per abbracciare il melodramma. Sbilenco perché nonostante l’inadeguatezza del regista nel gestire le sequenze d’azione, trova il suo tratto più originale proprio nel confronto tra il genere che vorrebbe rappresentare senza riuscirci appieno e la storia d’amore tra Kuklinski e la moglie, la quale senza l’altra linea narrativa perderebbe molta della sua forza. E’ in questo modo che le numerose lacune anziché indebolire il film lo arricchiscono, generando delle ombre sulle quali solo in parte viene fatta luce.