Venezia 2012 / Day 4

Al quarto giorno di festival finalmente arriva la grande opera che tutti aspettavano: The Master di Paul Thomas Anderson. Il film, ambientato a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, racconta il viaggio di un reduce della marina che torna a casa dopo aver combattuto la Seconda Guerra Mondiale e del suo incontro con Lancaster Dodd, filosofo e scrittore, ma soprattutto fondatore di una setta religiosa, evidentemente ricalcata sul modello di Scientology. Come gran parte dei film postbellici anche The Master si concentra da principio sulle ferite fisiche e morali lasciate dal conflitto e sul tentativo di reinserimento sociale del soldato; presto però qualcosa cambia: dal primo folgorante incontro con la figura carismatica di Dodd, il film si trasforma in un’appassionante gioco a due tra maestro e allievo, una specie di lungo balletto fatto di avvicinamenti e passi indietro, una sorta di sottile corteggiamento tutto chiuso in interni, dove a primeggiare è la parola.

Nel complesso rapporto tra i due personaggi non emerge mai la superiorità di uno dei due: entrambi esprimono la stessa necessità di stare con l’altro. In questa sofferta relazione s’impone così ancora una volta nel cinema andersoniano la ricerca della figura paterna; come in Sidney, Boogie Nights, Magnolia ed Il petroliere anche qui il protagonista è alla ricerca di un modello, di una figura rassicurante che possa in qualche modo proteggerlo, di una famiglia alla quale appartenere. Perché nella ricerca senza fine di Freddie Quell quello che più conta per lui sembra essere l’approdo ad una serenità, ad una “normalità” da sempre proiettata nell’impossibile matrimonio con Doris eppure mai raggiunta. E’ probabilmente per questo che il film di Anderson si allontana ancora di più dal pubblico rispetto alle opere precedenti. La distanza che il film in qualche modo pone nei confronti degli spettatori trova il proprio fondamento nell’inesausta e sofferta tensione verso un equilibrio, un centro che Quell cerca vanamente per tutto il film nel rapporto con il “maestro”, nel sogno di un amore più forte della guerra e della distanza, nell’appartenenza ad una comunità chiusa.

Questa tensione lo porta a consegnarsi nelle mani di Dodd, ad abbandonarsi ad esso come cavia per gli esperimenti scientifico/psicologici, ad aprirsi come mai aveva fatto prima confessando i propri tormenti e i propri traumi; a dedicarsi anima e corpo alla diffusione delle strampalate teorie della setta e poi, infine, ad indossare egli stesso i panni del maestro senza tuttavia riuscire a conservare un’identità definita. La sconfitta che il film mette in scena risiede nell’impossibilità di poter raggiungere questa stabilità. Avremo modo di parlarne in modo decisamente più approfondito in corrispondenza della sua uscita in sala. Al momento resta comunque il candidato più forte per il Leone D’oro.

Sempre in concorso ieri sera è stato presentato il bello e sorprendente Fill the Void, piccola opera israeliana ambientata all’interno della comunità ortodossa di Tel Aviv. Il film di Rama Burshstein mette in scena i tormenti di Shira, ragazza appena diciottenne che si ritrova, in seguito alla morte improvvisa della sorella maggiore Esther, a dover scegliere se sposare o no il di lei promesso sposo Yochai. Chiuso in opprimenti interni che impediscono ai personaggi di poter proiettare il proprio sguardo oltre l’orizzonte, Fill the Void racconta la storia di un desiderio frustrato, quello di Shira di poter sposare il ragazzo di cui è innamorata, e insieme del peso delle responsabilità che l’appartenenza alla comunità porta con sé. Nonostante la regista faccia parte della medesima comunità che mette in scena, emerge una visione non propriamente positiva del suddetto mondo, dominato da algide figure femminili tra le quali spicca la madre, donna fredda e pragmatica che spinge per il matrimonio combinato nonostante il recente lutto e soprattutto la volontà della figlia, evidentemente spaventata e sconvolta dall’idea di dover sposare l’uomo della sorella. In questo mondo dove non sembra esserci spazio per qualsivoglia affermazione personale, a contare sono solo i legami tra gli uomini e Dio e solo in secondo luogo quelli tra le persone. Non a caso è il rabbino a decidere se, come e quando un matrimonio deve farsi, ed è sempre lui a dominare la scena nei momenti più importanti, come nella morte di Esther. Attraverso una fotografia che nega continuamente la profondità di campo prediligendo tonalità chiare, alle volte addirittura accecanti, la regista sembra spingere verso una lettura tutta religiosa della propria opera, con il colore bianco che circonda i personaggi, quasi isolandoli tanto tra di loro quanto dall’ambiente nel quale agiscono, e con la presenza incombente del rabbino, vero e proprio patriarca della comunità. Con l’accettazione di Shira, il film prende una direzione che potrebbe essere vista come conservatrice nella muta accettazione di un destino almeno in parte imposto. Forse per questo motivo molti critici che non possiamo che definire cafoni (e qui a Venezia bisogna dire che ce ne sono fin troppi..) hanno accolto il film con boati e fischi assordanti. Misteri da festival.

La giornata si è poi conclusa con un altro titolo sorprendente: Low Tide del regista italiano ma americano d’adozione Roberto Minervini. Il film, che denuncia evidenti influenze dal cinema dei fratelli Dardenne, si “limita” a pedinare il proprio giovane protagonista mentre occupa le giornate distante da una madre alcolizzata ed assente. Il regista sceglie di stare addosso al ragazzino, di registrare qualsiasi suo movimento, di condividere insieme a lui tanto le azioni che lo sguardo. L’occhio della macchina da presa infatti non si pone mai al di sopra di lui nemmeno quando nell’inquadratura sono presenti gli adulti. La prospettiva rimane per tutto il film quella del bambino, anche quando lui compie azioni a dir poco discutibili come uccidere un pesce o assistere muto “all’esecuzione” di una mucca. Questo insolito viaggio alla scoperta delle durezze della vita procede per accumulo di situazioni che vedono praticamente sempre il protagonista vagare per strade deserte o vivere da solo la propria casa, senza alcun picco narrativo. E’ anche per questo che durante la visione si patisce la durata, proprio perché non lascia intravedere svolte all’orizzonte. Poi ovviamente qualcosa avviene, e cambia all’improvviso il destino sia del ragazzino che della madre. Ed è proprio grazie a questa svolta che il film cresce di colpo imprimendosi nella memoria. Nel dolce abbraccio che i due si scambiano immersi nel mare gli spettatori ritrovano il piacere e l’emozione di una visione pura che riconcilia, e che soprattutto illumina a ritroso tutto il cammino compiuto dal piccolo protagonista.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 29/01/2015

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