Wang Bing si è imposto all’attenzione mondiale come uno dei massimi documentaristi del cinema orientale degli ultimi quindici anni, ma il suo cinema è sempre stato fortemente contaminato dalla fiction e da uno sguardo votato alla costruzione drammaturgica degli eventi. Basti pensare a quello che è forse considerato il suo indiscusso capolavoro, quel The Ditch che fu presentato come film a sorpresa nel 2010 proprio a Venezia. D’altronde si tratta di una distinzione che nella selva dei linguaggi ibridi propri della contemporaneità non ha più alcuna ragione d’esistere, e se c’è una cosa che questa edizione del festival di Venezia ha sancito senza possibilità di appello è proprio l’appaiamento definitivo, dopo anni di inutili precisazioni semiologiche, tra fiction e documentario. Non tanto sul mercato reale dal quale il doc è da sempre bandito, trattandosi di una galassia che segue regole proprie ed è impossibile da condizionare a un simile livello di profondità, quanto nella concezione puramente filmica, concettuale ed estetica.
E’ in questi termini che il nuovo film di Wang Bing, vincitore nella scorsa edizione della Mostra della sezione Orizzonti col suo Three Sisters, si fa carico delle consuete, ardimentose forzature sul linguaggio che non possiamo non aspettarci da un cineasta che ha fatto giustamente scuola e continua a imporre con coraggio il suo magistero. Tre ore e cinquanta dentro un manicomio del sud-ovest della Cina, bassissima qualità di ripresa (voluta, perché siamo dinanzi a un pauperismo intriso di moralità), degrado dilagante e totale. Lenzuola lerce, bacinelle ai piedi del letto nelle quali i degenti hanno modo di espletare alla bell’e meglio i loro bisogni corporali. L’idea asfissiante di ruggine e sporcizia suggerita dalle immagini, l’insostenibile crudezza di carcasse ormai subumane lasciate a marcire nella solitudine e nel disinteresse delle istituzioni. Cinquanta matti di ogni genere (assassini, molesti, facinorosi e pericoli per la collettività) ad occupare lo stesso piano della struttura, come in un girone infernale, senza che la macchina da presa ci conceda tregua o possibilità di fuga.
Dopo il villaggio e il microcosmo familiare al centro del suo film precedente, Wang Bing torna al Lido (la sua seconda casa artistica, ormai) con un’altra opera, stavolta in proiezione speciale Fuori Concorso, forse ancor più respingente per i palati meno resistenti e cocciuti ma ugualmente meravigliosa. Anche qui ogni ricoverato ha una didascalia che ne indica allo spettatore il nome e l’arco temporale della reclusione psichiatrica, una sorta di contrassegno umanista, rispettoso del singolo individuo e della sua identità specifica di uomo e di donna prima di ogni altra cosa. Perché quello di Wang Bing, dopotutto, non è il mero racconto di una comunità che per ragioni intuibili si trova a trascorrere un’esistenza stremata nel corpo e nella mente, nemmeno il preordinato film d’inchiesta che acclude al testo filmico una dovizia d’informazioni dettagliate e frutto di copiose ricerche. E’ piuttosto la quintessenza della denuncia nella più alta e poetica forma che essa può assumere al cinema: il regista cinese dona infatti ai suoi protagonisti la dimensione letteraria di personaggi veri e propri (invadendo il terreno della fiction, appunto), portando sullo schermo storie e dinamiche che sono vere ma potrebbero anche essere inventate e scritte e non farebbe la benché minima differenza. A dispetto dell’anonimato di quei volti, della difficoltà nel riconoscersi e riconoscerli, nell’appiattimento brutale cui le circostanze li costringono. Wang Bing li mette in scena semplicemente, inanellando disturbanti situazioni di vita solo sulla carta ordinaria. Al di fuori delle loro stanze non vediamo quasi nulla, solo una serie di corridoi quadrati circolarmente percorribili ma ostruiti da sbarre, a incorniciare un cortile centrale o comunque un pianoterra che non scorgiamo e mai scorgeremo.
A chi guarda arrivano solo le canzoncine ripetute ossessivamente che parlano di gioventù e amori felici, di orizzonti idilliaci e vite spensierate, e ancora l’alienazione, le urla, i versi continui, le blaterazioni, la moltitudine di atti senza senso. Alla terza ora esatta di film si esce per un po’ dal manicomio, ma è solo un’evasione isolata, un’eccezione destinata immediatamente a cessare. Perché a ritornare prepotente e immediata è la reiterazione maniacale sulla quale Wang Bing costruisce un intero film, usandola, insieme alla durata spropositata, come strumento di sevizia nei confronti dello spettatore, che vorrebbe scappare in un qualsiasi momento ma non può (o meglio, non deve), forzato a spalancare gli occhi sull’orrore, a immedesimarsi fisicamente nella melma infida della costrizione carceraria di uomini derelitti, abbandonati e rimossi dalla civiltà propriamente detta. “La ripetizione della loro vita quotidiana amplifica l’esistenza del tempo e quando il tempo si ferma compare la vita”, dichiara lo stesso Wang Bing nelle note di regia. La pazzia è allitterazione anaforica e il regista lo sa bene: allora ecco che si circumnavigano quei corridoi con intorno tutti i rumori stridenti, gli oggetti sbattuti, le ciabatte percosse contro il muro, i rapporti sempre violenti e contrastati con la gente esterna che occasionalmente viene a far visita. Le melodie sconnesse provenienti da chissà quale passato sepolto, la sigaretta fumata contro la ringhiera mentre fuori infuriano i lampi e la pioggia e per tutti gli altri è la notte di Capodanno. L’alternarsi del giorno e della notte, le caramelle e le noccioline fatte passare solo attraverso le sbarre come molti rapporti fisici di varia natura.
Feng Ai (‘Til Madness Do Us Apart) è una visione fortissima e disarmante, documento tangibile di una realtà vergognosamente tenuta fuori campo, dinanzi alla quale non si può non sentirsi tramortiti, annichiliti, piccoli piccoli.