The Ditch

La storia di The Ditch è la storia del secolo breve e non riguarda solo il popolo cinese; riguarda gli uomini contemporanei in quanto figli e complici della crisi assiologica di un’epoca.

È un sole tremendo e glaciale quello che incombe sul cielo di Jiabiangou, ai confini del deserto del Gobi. Terra desolata e crudele, oggi ricoperta di coltivazioni di mais e girasoli. Il concime di questa frontiera infine vinta dalla civiltà è il sangue di migliaia di innocenti, gli spettri di Jiabiangou, la cui memoria è sistematicamente negata e tradita. Sacrificati da un potere politico ottuso e disumano, che mai ha loro permesso il diritto alla memoria. Mai comparsi sui libri di scuola, così come mai sono comparsi i nomi delle Guardie Rosse bambine del cimitero di Chongqing, i perseguitati della Rivoluzione Culturale, i milioni di vittime della carestia causata dalla follia di un uomo e dalle sue pretese di creare ricchezza dal nulla con un Balzo in Avanti delirante. Soltanto all’estero, grazie al lavoro di pochi sopravvissuti e narratori, sappiamo di Jiabiangou e di mille altre tragedie oscurate dalla Storia ufficiale e dalla cronaca del potere. Tra questi troviamo Wang Bing, documentarista prodigioso e sensibile, qui alla sua prima e unica opera di finzione, The Ditch, presentata come film a sorpresa al Festival del cinema di Venezia nel 2010.

Wang, come molti altri documentaristi decisi ad affrontare un passato rimosso per volontà politica, ha a che fare con i fantasmi di una memoria che sta scomparendo assieme ai testimoni, ormai anziani e senza voce. La sua è una vera e propria etnografia della memoria – poco importa che si tratti di finzione o documentario, dal momento che la distinzione in sé è superata da decenni e costituisce poco più che un ostacolo per comprendere il cinema del futuro. Dai tempi di West of The Tracks (2003) fino ai più recenti Three Sisters (2012) e Feng Ai (‘Til Madness Do Us Part<) (2013), Wang ha perseguito una poetica consapevole e coerente, che trova appunto nell’etnografia una delle sue chiavi interpretative. Un’altra chiave, imprescindibile, è quella del cinema moderno, in particolare del documentarismo francese fratello della Nouvelle Vague e nel rivoluzionario linguaggio rosselliniano e antonioniano [1]. Il suo è un linguaggio spoglio, fatto di piani sequenza, contatto e attesa. Si tratta, forse, dell’unico linguaggio possibile per mostrare una tragedia come quella di Jiabiangou; The Ditch è il frutto di oltre sei anni di lavoro, ricerca di fonti, incontri con i sopravvissuti e interminabili sessioni di montaggio.

Jiabiangou è stato un campo di lavoro, o meglio, un campo di rieducazione attraverso il lavoro (laojiao) nel quale migliaia di prigionieri politici furono imprigionati in quanto “nemici del popolo”. Molti di essi erano intellettuali e pensatori liberi che, nel contesto della campagna dei Cento Fiori (1957), ebbero l’ardire di esprimere delle opinioni critiche nei confronti del Partito che li aveva incentivati a dibattere come “cento scuole di pensiero”. Meno di un anno dopo, arrivò la repressione. Centinaia di migliaia di persone furono costrette alla “rieducazione” e marchiati nell’infamia in quanto elementi di destra – titolo che verrà loro revocato soltanto nel 1980. Moltissimi morirono. I più sfortunati finirono in posti come Jiabiangou, condannati al lavoro forzato in condizioni indescrivibili. La carestia che arrivò alla fine degli anni Cinquanta ridusse ulteriormente le razioni e quasi tutti morirono di fame. A Jiabiangou si mangiavano foglie secche, ratti, carne umana. I corpi erano gonfi e malati, la dignità umana flebile come tra i prigionieri di un lager o di un gulag. Restava l’orgoglio, come quello di He Fengming, sopravvissuta ormai ultraottantenne che Wang Bing aveva intervistato in un lungo documentario pochi anni prima (Fengming: a Chinese Memoir, 2007). L’orgoglio di chi ha subito un torto e, magari, è disposto a perdere la vita piuttosto che rubare il cibo a dei contadini, nella speranza di una riabilitazione illusoria che arrivò a pochissimi, e troppo tardi.

Con The Ditch, Wang decide per la prima volta di cimentarsi con il cinema di finzione. Ispirato da un libro di Yang Xianhui (Gaobie Jiabiangou, edito da Shanghai Wenyi Chubanshe), il regista mette in scena una minuziosa ricostruzione storica degli ultimi mesi della carneficina di Mingshui (un campo di lavoro nato da una costola di Jiabiangou). La messa in scena concede ben poco alle sirene drammaturgiche e alle perfezioni levigate del cinema di finzione, presentando un’esperienza brutale e una rievocazione senza veli. Le parole e i ricordi si fanno immagini spietate e la macchina da presa insegue i fantasmi del passato che vagano, zoppicando o strisciando, sotto il sole del deserto. Il paesaggio è diretta emanazione della morte con cui i prigionieri convivono, unico rintocco di un orologio del tempo che perde di significato: il tempo è semplicemente il vicino di letto che muore nel sonno, seguito da un altro, un altro ancora… risulta difficile, anche per questo motivo, delineare una qualsivoglia trama: quello che vediamo è un gruppo di prigionieri che aspettano la fine, mogli che divorziano da mariti caduti in disgrazia, corpi semisepolti sotto la sabbia. Inseguiamo i disperati che si allontanano a fatica dal buco nella terra dove vivono, dormono, mangiano, alla ricerca di cibo. Tuttavia si può individuare una struttura in tre capitoli, comunque fluidi: una descrizione minuziosa della vita dei prigionieri e della loro umanità residua; l’arrivo di una donna, moglie di uno dei prigionieri, e la sua disperata ricerca del corpo del marito nel mare di tumuli dei caduti; un tentativo di fuga disperato e senza seguito.

Luce e buio, inquadrature fisse e camera a mano: una grammatica filmica semplice e di impronta documentaristica, che lascia tutto lo spettro espressivo nelle mani del profilmico e delle sue minime variazioni. Wang è costretto a girare il film clandestinamente e con poche risorse, ma sa fare delle restrizioni economiche una coerente strategia estetica. Pochissimi i luoghi: le baracche degli ufficiali, il dormitorio scavato sottoterra, l’orizzonte fisso di una pianura di sabbia e rocce che fluttua come un oceano quando la macchina a mano segue le tracce di uno dei dannati [2]. Gli attori non professionisti e un commento sonoro inesistente fanno il resto: alla fine del film, nelle orecchie risuona il terribile vento del deserto e i bisbigli dei prigionieri, e tanto basta.

Come Hu Jie (Searching for Lin Zhao’s Soul, Though I am Gone), Zhao Liang (Petition) e molti altri, Wang Bing racconta il passato-nel-presente, con il deciso impegno a ricordare, testardamente. Per farlo, è necessario guardare con insistenza e lasciare che l’umanità emerga dalle immagini: il realismo di Wang è una questione di pazienza, di disponibilità all’immersione. Il suo cinema indaga l’umano e il dolore e si spinge – à la Herzog – nel cuore di tenebra della Cina e quindi del mondo tutto, alla ricerca di una possibile cognizione del dolore (e qual è il fil rouge che unisce le opere di Wang Bing, se non una indagine del dolore umano e del Tempo che passa e cancella il senso di ogni cosa?). Un cinema che “offende il cielo e la ragione” (sangtian haili), come urla la moglie disperata, protagonista di una delle tre “storie” nella storia di The Ditch, una Medea senza volontà di vendetta. Wang tratteggia il Potere, cieco e capriccioso, e i suoi piccoli funzionari alla periferia del frattale gerarchico, altrettanto miserabili nella loro irrilevanza. Si tratta dello stesso potere che oggi continua a insabbiare uno scomodo passato e cerca di costruire un soft power culturale a suon di miliardi, comprando catene distributive, producendo innocui prodotti di intrattenimento e finanziando i film hollywoodiani (da cui i “cattivi” cinesi sono completamente scomparsi, noterà anche il meno perspicace degli analisti).

In questo contesto, Wang Bing e i suoi pochi colleghi hanno un valore ancora maggiore. Wang ha fatto per i campi di lavoro e rieducazione quello che Resnais ha fatto per i lager e Rithy Panh per il sangue dei cambogiani: elaborazione per immagini di un passato opaco e non verbalizzabile, a dispetto delle migliaia di pagine scritte. In seno a questo atto di evocazione ed invito al ricordo, emerge una irriducibile fiducia nell’animale-uomo o, perlomeno, nel suo potenziale e nella sua vocazione all’umanità. La storia di The Ditch è la storia del secolo breve e non riguarda solo il popolo cinese; riguarda gli uomini contemporanei in quanto figli e complici della crisi assiologica di un’epoca, condannata a un eterno ritorno di toppe ideologiche ad un umanesimo sbrecciato da secoli. Guardare a Wang Bing come a un regista esotico da sfoggiare nella “riserva indiana” festivaliera sarebbe (è stato?) un errore imperdonabile.

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[1] Michelangelo Antonioni è particolarmente rilevante in quanto è stato il primo cineasta realmente moderno ad entrare in contatto con la – a suo tempo impermeabile – cultura cinematografica cinese negli anni Settanta. Impossibile sottostimare in questo senso l’impatto che il suo documentario Chung Kuo (1972) ebbe su intere generazioni di registi cinesi: criticato pubblicamente e dileggiato dal regime per la sua visione non elegiaca e alternativa della società cinese, il documentario televisivo del regista ferrarese costituì un vero e proprio caso. Nondimeno, l’opera godette di larghissima fama e contribuì a creare uno shock culturale in un periodo ancora lontano dalla liberazione linguistica e tematica del cinema della Repubblica Popolare, inaugurata dal “movimento” del documentario indipendente dei primi anni Novanta.

[2] Daniela Persico fa notare, a ragione, che Wang Bing è vicino ad Antonioni anche per la sua sensibilità nel «trasformare le situazioni umane in condizioni geofisiche» (Wang Bing. Il cinema nella Cina che cambia, Agenzia X 2010, p. 10), e questo vale sin dal suo primo capolavoro documentario, West of the Tracks.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 10/02/2015

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