C’è qualcosa di sacrale che salta agli occhi fin da subito, nel documentario di Gianfranco Rosi, vincitore del Leone d’Oro nel Concorso di Venezia 70. Al di là del titolo, geniale gioco di parole che ben restituisce tutta l’irraggiungibilità di un mistero da decrittare. Perché la Roma di Sacro GRA, più che in qualsiasi altra trasfigurazione della Capitale apparsa sullo schermo, è ammantata da un’aura arcana e indecifrabile che rapisce e costringe il nostro sguardo a una sorta di accomodamento, spogliandoci di punti di riferimento e stereotipi di terza o quarta mano. Andare oltre la Roma canonica e risaputa per Rosi è un po’ come spingersi oltre le colonne d’Ercole, invadere una zona dove nessuno ha mai ficcato il naso, una specie di territorio franco e purgatoriale, con le sue leggi tutte da scoprire e un immaginario post-apocalittico da rifondare ab imis. Può risultare un’allusione fin troppo mitica e roboante, ma di sicuro ben restituisce la portata titanica dell’operazione di Rosi, rimasto per tre anni nel limbo dell’anello di Saturno che circonda Roma, i primi sei mesi senza filmare assolutamente nulla del Grande Raccordo Anulare ma vivendo al suo interno molteplici esperienze umane, rubando istanti di vita vissuta, cominciando ad orientarsi nei meandri di una realtà totalmente a sé stante. Molto di ciò in cui Rosi si è imbattuto non ha poi trovato posto nel film, le cui riprese altrimenti sarebbero anche potute andare avanti per sempre, come il regista ammette in tutta sincerità. Dal GRA Rosi non intendeva più staccarsi, affezionatosi ormai a una lentezza irreale, così distante dalla frenesia convulsa e martellante che trasforma il centro di Roma in un pantano ormai invivibile. La vita vera, dunque, comincia oltre i confini cittadini, in cui i contrasti sono più accentuati e visibili e le caratterizzazioni antropologiche più concise, anche se comunque parimenti avvolte in una nebbia da diradare.
Dopo aver mostrato i barcaioli indiani, essersi lasciato andare negli anfratti del villaggio di Slab City insieme ai suoi abitanti estremi e aver raccontato la vita di un sicario messicano assoldato per il cartello di Tijuana nel bellissimo El Sicario – Room 164, Rosi stringe il GRA in una morsa di inquadrature notevoli e di forte impatto pittorico e si focalizza sulla natura peregrina di un mondo urbano che dà l’idea di essere saltato per aria. Sfollato anche se con un tetto sotto il quale risiedere, con le sue liturgie spettrali e il senso di un’apocalisse già interiorizzata a dovere, alla quale si è sopravvissuti senza neanche accorgersene. Il GRA appare come un non-luogo e in quanto tale nel rappresentarlo era fondamentale interrogarsi sulla dicotomia vero-falso, confine etico che ha detta di Rosi da sempre ispira e anima il suo cinema. Tallonando il “cinema del reale” più che il bollino della definizione “documentario” ormai percepita come mortificante, si muove una ricerca che non si leghi troppo all’urgenza oppressiva di dare al film una quadratura a tutti i costi uniforme, con l’unico obiettivo di decifrare l’oracolo di una Roma astratta e metafisica, mai torbida ma sempre molto umana. Contraddistinta da un intimo candore che nulla ha a che spartire con la paccottiglia indiscriminata e la bolgia soffocante che invade il centro della Città Eterna.
Una volontà che però, alla lunga, pesa. Perché nonostante il forte impatto della ritrattistica che propone, Sacro GRA sembra spesso un film sfilacciato, incompiuto e incompleto, che a furia di cercare la periferia diventa esso stesso troppo scentrato e squilibrato. L’unico elemento di perplessità, che volendo potrebbe anche essere ribaltato in una consapevole antiunitarietà, per un film che insegue il miracolo rivelato dietro ogni anfratto, che si acquatta a ridosso della realtà senza invaderla, rispettandone le ritrosie come le generosità, ergendosi discreto a contemplatore imparziale ma non distaccato di tutta la galleria di personaggi che il girato scelto da Rosi abbraccia: un nobile piemontese e la figlia laureanda, un botanico che tenta di scacciare via da un’oasi verde delle larve divoratrici, un principe moderno con tanto di sigaro che bazzica su una terrazza, un barelliere, un pescatore di anguille cui sono affidati alcuni dei momenti più divertenti del film e di tutto il festival. Perché Sacro GRA sa farsi in fondo anche tragicommedia, commistione dei toni e delle atmosfere, opera depositaria di un intero universo che da sommerso che è si espande nel tessuto del film per diventare sempre più macro, contraltare spoglio alle grandi bellezze meno marginali. E’ una Roma negata, quella di Rosi, che come si conviene vi si approccia da non romano per carpirne contraddizioni e cortocircuiti doverosamente dall’esterno. Una Roma in cui nulla di oleografico si vede mai e il cupolone di San Pietro è evocato solo in un paio di battute ma mai mostrato sullo schermo. A contare sono i rumori delle aree urbane più inselvatichite, assimilati a un albero che ingloba al suo interno larve e insetti di vario tipo. Una cornice metaforica che regala al film una seconda pelle interpretativa e apre gli occhi verso una riconsiderazione nuova della realtà. Lo split screen finale, alla luce di quest’ultima lettura, non può non leggersi come un inno alla moltiplicazione problematica dei punti di vista e al dubbio sistematico come unica chiave di lettura per una realtà che non sia giudicata ma solo sviscerata, capita. E forse solo secondariamente amata.