Fuocoammare
Rosi osserva Lampedusa e la tragedia del mare al riparo dietro un vetro\obiettivo colorato in digitale
Come in Sacro Gra il cinema di Gianfranco Rosi inizia dal contesto di riferimento. Un luogo dentro il quale prendono vita le storie che appartengono all’ambiente d’indagine documentaristica. In Fuocoammare s’intrecciano più punti di vista, più nuclei narrativi reali che germinano da un unico luogo, raccordo questo di riferimento magnetico che attrae i racconti: Lampedusa appunto. La famiglia, composta dal padre marinaio, dalla nonna casalinga e dal nonno sommozzatore e pescatore di ricci, del piccolo Samuele che insieme ad un amico vive, dal loro giovanissimo ed ingenuo punto di vista, l’isola stessa. Il dottor Bartolo, unico medico, costretto dalla professione a vivere e servire il lato più tragico della vicenda lampedusana. Un uomo che lavora per l’emittente radio locale. Ed infine il mare, i migranti e le navi di primo soccorso.
Come in Sacro Gra Rosi lavora con un piglio antinarrativo, attraverso particelle di esistenze attratte da un tema di partenza. Collante di un lavoro strutturato in questa maniera dovrebbe essere, sì Lampedusa, sì il Raccordo Anulare, ma il mastice di unione dovrebbe essere lo sguardo dell’autore capace di gravitare i diversi piani narrativi intorno al suo nucleo. Uso il condizionale perché, anche in questo caso, dietro all’occhio che vede, che compone e che documenta, Rosi continua a non esserci. Se da un lato, ideale e programmatico, la scomparsa fantasmatica dell’autore potrebbe risultare una scelta di imparzialità con il mostrato, dall’altro risulta essere un gioco di assenze ingiustificate. E’ il contesto di riferimento a dominare l’autore e non il contrario. Godard (per non parlare di Rivette) sosteneva che una carrellata è una questione di morale in grado di cogliere alla stessa altezza (nell’accezione umana del termine) il soggetto rappresentato. Rosi racconta e mostra senza mettere la firma, o meglio la firma la mette, scegliendo un font barocco su di un documento sgualcito e profondamente umano, nascondendo la sua linea morale (ed autoriale) dietro ad un vetro colorato in digitale. In quest’opera in particolare, il regista dimostra anche un certo gusto estetico raffinato nella forma e nella messa in scena, non così imperante in Sacro Gra, tanto attraente quanto superfluo. Una geometrica messa in scena che annienta il luogo deputato al silenzio audiovisivo, usurpando un’immagine che poteva tranquillamente rimanere in fuori campo. La pulizia dell’immagine digitale e la ricercatezza cromatica (tramite due delle dominanti primarie, rosso e blu) della color correction arriva a spegnere l’intensità della tragedia che al di là dell’obiettivo si presenta. E questo non per sostenere quell’imperfezione viva data dalla pellicola - chi scrive appoggia pienamente il digitale – ma per considerare come spesso una resa pulita, delineata e cromatizzata contrasti la comunicazione della materia reale, sostanza tanto tragica quanto vera ed imperfetta. Inoltre mi chiedo, in un mondo che restituisce attimi fotografici di qualsiasi atrocità, utili a volte altre meno, a scuotere lo sguardo occidentale e le sue coscienze, istantanee in un universo mediale abituato alla comunicazione dell’immagine della tragedia del corpo, che anestetizza lo sguardo allontanando il soggetto dall’oggetto, l’enunciatario dall’enunciato, che senso ha continuare a mostrarla scendendo dentro la stiva della nave dove giacciono i corpi morti ammucchiati degli emigrati che non sono sopravvissuti al tragitto? Che bisogno ha Rosi di mostrarcelo? Per sacralità o per curiosità? Perché se le parole del dottore, capaci di veicolare grazie all’ l’esperienza attiva sul campo, narrativamente già arrivano al cuore dello spettatore, si mette in mostra un corpo ustionato dalle bruciature chimiche del gasolio? Per commento grafico rinforzativo o per dimostrazione voyeuristica?
Un cinema che intercetta momenti di rara intensità – come la canzone cantata che come una preghiera racconta la storia del tragitto appena percorso per raggiungere l’isola, o il racconto esperienziale del dottore, o l’ultimo salvataggio prima dei tre punti macchina statici sopracitati – circostanze però isolate che si generano in maniera inconsapevole di fronte ad uno sguardo assente, così come accadeva (in maniera molto più sporadica) in Sacro Gra, penso ad esempio al saluto dell’ambulanziere all’anziana madre. Attimi rubati più che colti. Momenti di pieno in flussi di vuoto. Un cinema documentario a maglie larghe, inconsapevole ed inconsistente, utile più al ricamo critico successivo alla visione che alla condivisione, comunione o divulgazione dell’evento ripreso. Un occhio pigro europeo sulla tragedia del mare che si accoda allo sguardo pigro di Rosi, mentre osserva con l’occhio allenato, dal piedistallo della forma e dell’armonia cromatica, la verità e l’orrore.
E ricordo infine, per chi volesse veramente vedere qualcosa di toccante sullo stesso argomento, di recuperare un piccolo documentario, forse più imperfetto, forse meno virtuoso, forse meno costoso, ma sicuramente più vitale, più lirico ed esplicativo: Sponde di Irene Dionisio, regista che ha adottato un punto di vista veramente unico sull’argomento.