Sotto il livello del mare

Al suo primo lungometraggio, l’acclamato regista di Sacro G.R.A. e Fuocoammare descrive con naturalezza ed empatia una comunità di homeless nel deserto californiano.

Leone d’Oro a Venezia nel 2013 con Sacro G.R.A., Orso d’Oro a Berlino nel 2016 con Fuocoammare: gli ultimi anni sono stati propizi e fecondi per l’apprezzato documentarista italiano Gianfranco Rosi, che già nel 2010 aveva fatto parlare di sé con il discusso El Sicario Room 164, lunga e raggelante intervista a un efferato criminale. Facendo ancora un passo indietro nella sua esigua ma preziosa filmografia, troviamo Below Sea Level – Sotto il livello del mare, il suo primo lungometraggio, (Premio Orizzonti e Premio Doc/It ancora a Venezia, nel 2008), ricco di spunti di analisi al pari dei più noti titoli sopra citati.

Girato nel deserto californiano, il documentario è un ritratto onesto e scabro di una comunità di homeless, che (soprav)vive senza acqua né elettricità in una base militare dismessa, a quaranta metri sotto il livello del mare.

Uomini e donne che hanno visto le loro vite naufragare per i motivi più disparati cercano di ricreare una “normalità” con mezzi di fortuna, sopportando le giornate torride e le notti fredde, tentando di fare i conti con la propria solitudine e i propri rimpianti, o più semplicemente con l’arbitrarietà di un destino avverso. Qualcuno dorme nella propria automobile, qualcuno in un autobus abbandonato; alcuni si aggrappano al poco che resta per tentare ostinatamente di tornare a galla, altri si abbandonano alla bottiglia in una resa degradante e disperata. La maggioranza di questi outsiders che il mondo vuole dimenticare sono persone la cui vita si è spezzata in un soffio, per caso: un incidente d’auto, un colpo di pistola, la sentenza impietosa di un tribunale che riduce improvvisamente sul lastrico. Medici, seminaristi, attori o veterani del Vietnam, non importa il passato, le vite di prima sono cancellate, azzerate per quelli che oggi sono i nuovi poveri, brutalmente accantonati ai margini di tutto in un non-luogo lunare, dove tuttavia si sentono – e sono – più liberi che nella metropoli, immersi in una natura matrigna ma in fondo più “umana” ed empatica di quella società che li rifiuta.

Il regista, in linea con i lavori che in seguito realizzerà, restituisce allo sguardo brani di una realtà che, sebbene tendenzialmente pensata come periferica e marginale, di fatto è soltanto la faccia oscura di un presente – di un sistema socio-politico – che percepiamo come rassicurante e tranquillo fintanto che non grattiamo e guardiamo sotto la superficie. Tuttavia Rosi non recrimina, non accusa, non punta il dito, perché questo significherebbe già incrinare il nitore e la purezza delle immagini che si susseguono invece in un fluire autonomo, nella loro ruvida incompiutezza, ora aspre, ora dolci ma sempre eloquenti.

Come accadeva per il Minervini di Louisiana, di fronte a non-attori che mettono a nudo se stessi e il proprio dolore viene istintivo, a tratti, interrogarsi sulla legittimità del proprio sguardo spettatoriale che si insinua nelle pieghe profonde di un vissuto che in quanto tale non è più cinema. Ma la poetica di Rosi si nutre forse anche di questo, ovvero di una sorta di tensione verso i limiti del (non)filmabile, osando, offrendo allo spettatore una realtà cruda e intatta alla quale in ultimo il cinema si sovrappone aderendo perfettamente, senza tuttavia perdere la sua essenza peculiare.

Sotto al livello del mare sta insomma quello che abbiamo posto sotto l’orizzonte del nostro guardare, per comodità, per pigrizia, per paura. La macchina da presa di Rosi, senza retorica né pietismo, si (e ci) apre al rimosso, ricordandoci che il senso del cinema è in ultimo anche questo.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 16/05/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria