Viene subito la tentazione di approcciarsi a The Zero Theorem come all’opera-summa in cui ritrovare tutte le ossessioni del cinema di Terry Gilliam. Ma questo escluderebbe, immediatamente, il suo valore di completamento, che riesplorando un immaginario personale sa anche trasformarsi in una riflessione sul tempo, su un’immagine cinematografica che si blocca al crepuscolo, che vive nell’ora magica di un presente senza durata. L’immaginario brasiliano di un futuro distopico non può che divenire una riflessione sull’oggi e, insieme, una rielaborazione del passato.“Per me” rivela Gilliam in conferenza stampa “il modo migliore di guardare al futuro è pensando al passato”: ecco allora riemergere spettri novecenteschi, dittature e fantasmi di orwelliana memoria, ma anche il tenero, lontano sogno di angeli impossibili. Ma l’amore, anche l’amore (perfino l’amore!) è uno strumento asservito al potere.
The Zero Theorem è l’incubo di chi ha tanto da dire, di chi crede ancora che il cinema possa essere il medium perfetto per un discorso politico sul nostro mondo e sulla nostra società. Dopo anni di prove fuori fuoco e di progetti mancati, Gilliam torna alle vette del suo cinema, interessato com’è al tema della connessione, in tutte le sue svariate declinazioni: con le entità, con il potere, con l’alterità, con il sesso e, soprattutto, con il senso.
In un mondo controllato dalle corporazioni e da un grande, onnipresente occhio, l’hacker Qohen Leth vive isolato all’interno di una cappella in rovina, devastata da un incendio che l’ha resa regno del silenzio e della solitudine. Qohen (Christoph Waltz) è agorafobico, parla al plurale, respinge il contatto fisico, è vittima dello sguardo, conosce e si trova a suo agio solo con se stesso, sua unica, inscindibile alterità. Un uomo è sempre tanti uomini, così come uno sguardo è sempre tanti sguardi. Qohen viene ingaggiato per lavorare al Teorema Zero, algoritmo impossibile dove rintracciare il punto di partenza, l’alfa e l’omega, la ragione, il senso della vita. Perché che cos’è questo teorema se non la discesa irrefrenabile e devastante verso il nulla (o grado zero, per l’appunto) dell’esistenza (e dell’immagine)? In attesa di una chiamata-ascesi, Qohen è l’uomo di fede dove un pensiero, uno solo, diviene la facoltà, o la possibilità stessa, di un movimento.
The Zero Theorem racconta infatti un mondo in fin dei conti chiuso, quasi completamente in interni, dove poter simulare un’altra vita, dove poter superare il corpo e tornare a cercare finalmente l’anima. L’aspetto interessante è la convergenza – in fin dei conti non così paradossale – tra anima e virtuale: il regno dell’extracorporeo diviene paradossalmente il mondo dove riscoprire l’umano. Ma è un umano, questo, completamente sorvegliato, intercettato, manipolato: il grande occhio veicola anche i sogni (anzi, ancora di più, genera i sogni), violando qualsiasi ipotesi di intimità. Ecco allora che l’opera di Gilliam si trasforma in un apologo sul potere che non solo ha invaso il mondo fisico, ma gestisce e domina anche quello metafisico, reggendone ogni sfera. Tutte le relazioni umane divengono così complessi rapporti di numeri. Ogni deriva romantica di un oltre incontaminato è andata perduta, asservita alla logica di un organismo che controlla l’astratto e il concreto, il gioco e l’inganno, l’economia e il sesso, dunque l’intera società.
In una dimensione dove “se non sei connesso non fai niente”, dove la pubblicità insegue letteralmente la gente, dove ogni atto fisico ha perso di valore e di senso, perfino il sesso è divenuto un’interfaccia tantrica: il nuovo livello del desiderio è quello messo in moto da un chip di memoria a fibre ottiche. Non esiste più il qui e l’ora, ma solo l’altra parte, non più il corpo ma la proiezione di un corpo. L’apocalisse si configura come il destino stesso delle relazioni umane: la vera fine del mondo è il regno della solitudine. Solitudine dei corpi, abbandonati a essere il riflesso del loro avatar virtuale, solitudine dei cervelli, separati da un’interfaccia che li fa deflagrare, solitudine dei luoghi, destinati ad implodere in un teorema zero in cui si annullerà il mondo, qualsiasi mondo. Ma è proprio in quest’idea di isolamento che Gilliam tenta di intercettare – e di riscoprire – la dimensione del sacro, nella concezione più antica del termine. Il sacro come tutto ciò che è proibito, il sacro come luogo altro, seminale, della conoscenza. Ecco allora l’immagine di un parco con un muro di divieti: vietato amare, vietato sorridere, vietato giocare. Ma è proprio questo mondo di proibizioni che mortificano la vita a disinnescare, dall’interno, il meccanismo perfetto, a condannare ogni immagine al naufragio. Ma il potere, si sa, è multiforme, come il cambiante che trova sempre una nuova identità.
Il suo primo strumento è, ovviamente, quello della seduzione. Nella costruzione di un’oasi virtuale, di una spiaggia da cartolina, di un’acqua che è solo immagine dell’acqua (e non più nemmeno idea dell’acqua), la donna è l’arcobaleno artificiale, la diva bellissima che pare irraggiungibile nel suo essere così hollywoodiana, così ancorata a un’idea erotica prefabbricata e decodificata. Nel ritorno alla realtà quella stessa donna perde qualsiasi connotato iconico per trasformarsi in un individuo non più desiderabile, ma anzi deludente, superato, fragile, tanto che Qohen la respinge. Il potere virtuale del resto ha costruito una nuova icona del sesso dove il tatto (non si tocca!) e il gusto (si mangia poco, e l’accenno stesso di un sapore finisce quasi per strozzare Qohen) corrispondono all’osceno: ne consegue che tutti gli altri sensi siano aumentati.
“La vita può essere vista come l’organismo che infetta il perfetto meccanismo della morte”: l’esistenza stessa, il sesso e la riproduzione, diventano proiezioni del (e dal) nulla, immagini sintetiche create da un dio che si è fatto macchina. In attesa che questo kammerspiel asfittico, che questo mondo senza mondo, possa finalmente deflagrare: un mare di immagini sintetiche che sprofondano in un buco nero, in quello zero che è la fine di tutto, che è la chiusura di un occhio che ha ceduto all’oscurità. In Brazil cadeva l’individuo, in The Zero Theorem muore il mondo, ma rimane il miraggio, il sogno generoso che tutto possa essere ancora cristallizzato, bloccandosi in una chimera fuori dal tempo e dallo spazio: priva di un passato e un futuro, libera dal peso della storia, ecco rinascere l’illusione della volontà. L’abbaglio di un uomo nuovo, finalmente libero, capace perfino di controllare il sole, non più succube del virtuale, ma suo autentico padrone. La vita è possibile solo al crepuscolo, in quel cielo sospeso, quello della luce buia e dell’istante magico: senza più paura di svanire nel buio, in un limbo dimentico del movimento e della durata.
Si direbbe quasi il sogno di un uomo senza più cinema.