Thumbuscker – Il succhiapollice
Esordio nel lungometraggio di Mike Mills, Thumbsucker è un riuscito racconto di formazione ma anche una riflessione sulle storture della società americana contemporanea.
Primo lungometraggio dello statunitense Mike Mills, Thumbsucker - Il succhiapollice è un racconto di formazione agro-dolce che riesce a coniugare la levità dei toni espressivi a un’analisi, a ben guardare piuttosto impietosa, della società americana contemporanea. Il regista, già graphic designer per diversi gruppi musicali (gli Air, i Sonic Youth, i Beastie Boys) e autore di videoclip (di nuovo per gli Air, Moby e Yoko Ono) esordisce sul grande schermo coadiuvato da ottimi interpreti, tra i quali spicca Tilda Swinton nel ruolo di madre dubbiosa e moglie irrequieta e sfuggente.
Il protagonista del film è Justin (un credibilissimo Lou Taylor Pucci), un adolescente che si dibatte, come tanti, tra l’impulso di sperimentare e crescere e la tentazione di rifugiarsi in una dimensione interiore ancora infantile. Il sintomo macroscopico di un disagio che tuttavia ha ben poco di atipico e preoccupante è la sua abitudine di succhiarsi il pollice: un atto di per sé innocente che invece, quasi fosse portatore di una carica eversiva o scandalosa, viene presto stigmatizzato duramente. Ecco allora che un dentista hippie e stralunato - Keanu Reeves - si improvvisa psicologo e tenta di combattere con l’ipnosi questo vizio imbarazzante, mentre i genitori alternano rabbia e incomprensione (il padre) a una silenziosa costernazione (la madre). Nel frattempo, il personale scolastico stabilisce che quello di Justin è un deficit da attenzione: se l’insoddisfazione, lo smarrimento e l’inquietudine tipicamente adolescenziali sono una malattia, non resta che combatterli a suon di psicofarmaci, elargiti al ragazzo come caramelle. Con gli stimolanti arriveranno rapidamente voti più alti, uno spietato spirito di competizione – prontamente applaudito da insegnanti e compagni - e anche un pizzico di arroganza. Sarà Justin stesso, grazie alla sua sensibilità, a fare cautamente marcia indietro, consapevole che i farmaci che sta utilizzando sono ben più pericolosi del suo pollice. A questi preferirà presto qualche assaggio di marijuana e i giochi erotici con la coetanea Rebecca.
Infine, nonostante la miopia colpevole di un sistema scolastico che fomenta volontariamente arrivismo e narcisismo, e nonostante una famiglia sempre sull’orlo della disgregazione, Justin riuscirà a trovare la propria strada, facendosi coraggio di fronte alle tante piccole e grandi paure che accompagnano il percorso verso la maturità.
Con un linguaggio piano e a tratti scarno ma non privo di interessanti peculiarità, con grande empatia nei confronti dei personaggi – ricordiamo l’attenta descrizione del fratellino di Justin – e con estrema accortezza per i dettagli, Mills restituisce allo spettatore tutta la tensione implicita di questo nucleo familiare dove, come spesso accade, è l’incapacità (o la non volontà?) di comunicare a generare frustrazioni e malesseri. La distanza emotiva, che a volte rischia di diventare abissale, e il peso del non-detto opprimono la quotidianità familiare del protagonista, una realtà che rischia costantemente di implodere rivelando l’estrema fragilità di un’istituzione – la famiglia, appunto – che il mito dell’ “american way of life”, sebbene intriso di individualismo, vorrebbe invece inscalfibile e salda come la roccia.
Sarà nei suoi due successivi film che il regista tornerà ad approfondire con acume e inventiva questo tema, per pescare audacemente nella propria insolita autobiografia (Beginners, 2010) o per proporne una lettura assolutamente originale (20th Century Women, 2016), con un occhio alla dimensione affettiva e privata e l’altro a quella collettiva della Storia.