Venezia 71 - One on One

Kim Ki-duk racconta, attraverso una facile metafora, la fine della democrazia e la crisi della società sudcoreana, ma realizza un film terribilmente chiuso e didascalico.

In molti si aspettavano che Kim Ki-duk, dopo l’ultimo Moebius, avrebbe proseguito il suo percorso sulle infinite possibilità erogene del corpo. L’immagine digitale di Kim, spogliata di qualsiasi estetismo, sembrava nascondersi ormai dietro i pixel che la fagocitavano: sempre meno visibile, sempre più sporca e sintetica, verso l’amatoralità di una nuova giovinezza. Eppure One on One, il suo ultimo lavoro, va in tutt’altra direzione e cade vertiginosamente. Il film si apre con una breve sequenza di stupro e omicidio della giovane Oh Min-ju. Le intenzioni del regista non potevano essere più chiare e dichiarate fin dall’inizio: Oh Min-Ju in italiano significa Oh, Democrazia! e, con la prima di una serie infinita di metafore, ci rendiamo conto che a morire sia la democrazia stessa. Servono pochi minuti per comprendere l’operazione di Kim: One on One vorrebbe essere l’apologo moralistico più che morale sulla situazione della Corea del Sud, una società che si propaga, fin dai vertici, col sangue e la vendetta. Come di programma, la morte della ragazza verrà vendicata da un gruppo autonomo di giustizieri che staneranno e tortureranno i colpevoli, dai semplici esecutori ai pezzi grossi che hanno ordinato l’azione.

Con una struttura che si reitera per due ore di durata e una sequela interminabile di violenze, Kim sceglie la via della metafora elementare per raccontare un mondo in crisi (non solo economica ma, soprattutto, morale). Eppure dialoghi, personaggi, situazioni, conflitti, svolte narrative (se di svolte si può parlare) non sono mai stati così didascalici nel suo cinema: ne esce fuori un film a tesi, il compitino inutile di un regista spaventosamente disorientato, privo di qualsiasi guizzo o epifania. Tutto è urlato a squarciagola, ribadito didatticamente, non solo a parole, ma col sangue di ogni tortura. Se un tempo la violenza mostrata da Kim era un’ipotesi di espiazione, qui diviene il mezzo più facile e superficiale per riflettere su un’intera società. Che la violenza voglia sempre altra violenza, che le vittime diventino carnefici, è la storia più vecchia del mondo, ma l’ostentazione del meccanismo chiude il film in se stesso, rendendolo così coercitivo da annoiare e disinteressare il pubblico. One on One è dunque gabbia senza uscita, lavoro compiaciuto di un regista che ha perso la bussola e che, in cerca di orientamento, vomita tutto il suo malessere in faccia allo spettatore. Ma quest’ultimo, legittimamente, non ci sta.

Come se non bastasse ogni personaggio è ridotto a mera marionetta narrativa che deve muoversi lungo i fili di una tesi decantata. Perfino la messa in scena sembra tenacemente illustrativa e monocorde, lontana anni luce dalla sporcizia di Moebius o anche dalla robustezza di Pietà, tanto per citare gli ultimi titoli. E quando, verso il finale, il film s’inoltra in territori vagamente metatestuali con un’abusata teoria dei ruoli sociali, allora la noia cede il passo all’imbarazzo. Non si mette qui in dubbio che Kim sia assolutamente sincero nel racconto (ha perfino definito One on One il suo film più personale), ma ciò che sembra aver dimenticato è proprio il cinema (perfino il suo cinema!).

Si guarda One on One con distacco, mentre emerge la nostalgia nei confronti un regista che un tempo non voleva spiegare l’uomo, la società, il mondo, ma si limitava a osservarne gli impulsi, a indagarne i desideri più selvaggi e reconditi, riscoprendo perfino l’amore nei momenti più bassi degli uomini.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 28/08/2014

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