El Camino - Il film di Breaking Bad
Pur ponendolo a confronto con il peso di spettri e assenze, Vince Gilligan concede a Jesse Pinkman la quadratura del cerchio e la possibilità di una nuova vita.
«Sistemare le cose...questa è l'unica cosa che non si può mai fare».
È un rapido dialogo tra Jesse Pinkman e Mike Ehrmantraut a dare il via a El Camino, l'atteso capitolo finale di Breaking Bad, tutto dedicato al co-protagonista della parabola criminale di Walter White. Vince Gilligan aveva lasciato il suo personaggio in preda alla fuga su una Chevrolet El Camino rubata ai suoi aguzzini dopo lunghissimi mesi di prigionia ed agonia. L'unico obiettivo del ragazzo è quello di cambiare vita ma, per farlo, dovrà tornare sui suoi passi, sistemare le faccende irrisolte e nascondersi da tutti.
Un punto particolarmente critico relativo a El Camino riguarda le motivazioni che hanno spinto Gilligan a tornare a mettere mano all'universo che, più di tutti, ha colonizzato l'immaginario collettivo durante l'ultimo decennio di serialità americana. Ovviamente, l'operazione è totalmente differente rispetto a Better Call Saul, che poneva una serie di rischi sulla necessità di bilanciare la parentela nei confronti della serie madre con una propria originalità. Lo spin-off incentrato sulla figura di Jimmy McGill ha dato vita a quattro stagioni, mentre l'ultimo film di Gilligan resta soltanto un prodotto della durata di 120 minuti con l'obiettivo non di espandere e ramificare ulteriormente un universo che, sulla carta, potrebbe dar vita a digressioni infinite, ma di concludere il percorso di un personaggio fondamentale, sancendone la crescita.
In tal senso, El Camino si rivela un oggetto bifronte e può essere letto in due modi differenti ma, pur sempre, complementari tra loro. Lo spettatore che non abbia mai visto Breaking Bad potrebbe scorgere nel film un thriller di buona fattura e persino un tardivo coming of age su un personaggio che prova a mettere da parte tutte le sue certezze -tra cui quella di affidarsi alla generica casualità universale - per abbracciare una vita diversa basata sulla centralità delle proprie decisioni. Costruito su una serie di contraddizioni, questo western on the road riesce a creare i momenti migliori imprigionando Jesse tra le quattro mura di un appartamento. Ogni spazio sembra voler opprimere il protagonista, costringendolo in luoghi angusti, e anche le porte che si spalancano si rivelano più minacciose che altro. Alla necessità di mettere Pinkman su strada e fargli percorrere miglia e miglia per allontanarsi quanto più possibile dal suo passato ci pensa, quindi, l'architettura degli spazi, a cui si aggiungono numerosi momenti di stasi, talmente ricchi di idee di scrittura da risultare senza respiro. Come film di genere, El Camino funziona perché edifica un immaginario sul contrasto tra epica della fuga e intimità del privato, focalizzandosi su un personaggio che prova ad afferrare il suo presente, affidando al futuro la vaga speranza di esorcizzare il proprio passato.
Tuttavia, è innegabile affermare che il film di Gilligan sia soprattutto un dono nei confronti della comunità immaginata di Breaking Bad, che ritroverà quel mondo grottesco pieno di sabbia e di sangue, realtà brutale e violenza stupida e cieca, strade, deserti rocciosi e cavalcavia che hanno offerto riparo a spacciatori, fuggitivi e agli innumerevoli men of constant sorrow che hanno costruito il loro mestiere sulle esigenze dei criminali. In questo secondo caso, El Camino si rivela essere un percorso solcato da una profusione di easter-eggs e un meccanismo a incastro che, sulla scorta della serie, alterna momenti presenti a flashback popolati dai fantasmi di Pinkman. Jesse è continuamente ossessionato dagli spettri che sono entrati a far parte della sua esistenza e, allo stesso tempo, dai fantasmi di ciò che insegue per il suo futuro. L'assenza della presenza - in primo luogo dell'amata Jane - lo pone dinnanzi a insoddisfazioni, desideri e angosce, che possono essere affrontati soltanto dall'arma di un'immaginazione in grado di poter curare il presente e il lutto di ciò che è stato, favorendo la genesi del nuovo.
Tuttavia, la morsa della realtà è asfissiante e il destino di Pinkman non sarà mai uno di conquista della libertà -rinchiuso com'è ancora in una prigione, quella dei sensi di colpa e dei traumi del passato - ma il personaggio avrà almeno l'occasione di fare ammenda dei propri errori, possibilità che Walter White non ha voluto avere, inghiottito completamente dal gorgo oscuro della sua (vitale) ossessione. Insomma, Jesse non potrà mai sistemare le cose e la convivenza con il suo carico di ricordi e con un lieto fine, probabilmente, è soltanto un sogno. Eppure, nonostante il tono crepuscolare e il dolore che accompagna ogni scambio di sguardi e ogni suo vagheggiamento, non si può non riscontrare in questo secondo abbandono al fuori campo un gigantesco atto di fiducia nei confronti del futuro e di un personaggio che ha trascorso le sue ultime 48 ore che ci siano state concesse ponendo le basi per una nuova vita. Adesso, sta allo spettatore usufruire di questo dono e riempire a piacimento gli spazi bianchi, affidando al sorriso finale di Jesse le sensazioni che più crede opportune.