Killers of the Flower Moon
Un gesto di fede dovuta, un’ulteriore scavo nella nascita mostruosa di una nazione, un affresco che riporta l’immagine del cinema americano a forme di epica e classicità perdute. L’occhio si spalanca.
La Crudeltà ha Cuore Umano
e Volto Umano la Gelosia
il Terrore, l’Umana Forma Divina
e Veste Umana la Segretezza
la Veste Umana, è Ferro forgiato
la Forma Umana, un’incandescente Forgia
il Volto Umano, una Fornace sigillata
il Cuore Umano, la sua Gola famelica.
William Blake
È anzitutto questione di corpi. Sfatti, imbolsiti, vecchi ma comunque incombenti, incarnano un potere di avidità corrotta, terrigna, famelica. Can you find the wolves in this picture? Tutti le figure apicali del potere messo in scena da Killers of the Flower Moon, potere bianco e maschile i cui connotati oscillano tra gli stilemi del western e del gangster movie, rientrano in questo tipo di configurazione formale. La posizione politica ribadita da Martin Scorsese passa anzitutto da qui, da questa pletora di carni stanche eppure inesauste nella loro ingordigia, intenzionate ancora e sempre a esserci, come corpo presente e pesante, dentro ogni immagine. A occupare l'inquadratura.
La smorfia imbruttente e belluina adottata da Leonardo DiCaprio è solo la punta dell’iceberg, la manifestazione più visibile e ottusa impiegata come strumento dalle eminenze grigie. Non certo innocente, perché sono sue le mani che si sporcano di sangue e veleno e affliggono persino lì dove il sentimento permane e si mescola a confuse ideologie di morte; eppure la colpa del suo Ernest Burkhart, nipote del mefistofelico William Hale, parla la lingua della debolezza piuttosto che della forza, vicina com’è alla semplicità manipolabile di certi personaggi rurali creati da William Faulkner. Realmente pura e morale è piuttosto l’innocenza di sua moglie, Mollie Burkhart, amata e contemporaneamente afflitta, ingannata, deturpata negli affetti e nell’identità culturale oltre che braccata per il suo patrimonio. Similmente a quanto già fatto tramite il personaggio di Peggy Sheeran, la figlia del killer interpretato da Robert De Niro in The Irishman, anche qui Scorsese rende la presenza femminile una controparte apparentemente silente al mondo di violenza perpetrato dal dominio maschile, detentrice di voce narrante ma soffocata dall'altrui punto di vista. Come Peggy, anche Mollie si limita per lo più a osservare, senza prendere posizione, ma che errore sarebbe scambiare il silenzio di queste figure per condiscendenza, acquietamento, sconfitta. Il loro sdegno piuttosto riverbera, e in particolare in Killers, grazie alla dignità gloriosa e ardente incarnata da Lily Gladstone, il tutto avviene attraverso gli occhi. Nello sguardo di Molly, mai chiuso anche nei momenti di peggiore malattia, anche quando il sentimento sembra accecare il giudizio e rendere incredibile il tradimento, è raccolto tutto il senso morale e l’urgenza politica del film. Il suo cuore, attorniato da lupi famelici che non ne inzozzano la purezza e la dignità, appunto, altissimamente umana.
Nel suo classico L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, il sociologo Max Weber esprime una tesi rimasta celebre, per cui l’impulso all’arricchimento terreno professato e perseguito dalla borghesia europea a partire dal Cinquecento va ricondotto, o per lo meno messo in relazione, all’interpretazione etica del lavoro data dalla confessione protestante, anzitutto quella di matrice calvinista, secondo cui la ricchezza personale non è altro che la manifestazione fenotipica della grazia divina. Ma se è vero che il benessere dato dal lavoro, con i suoi frutti monetari e materiali, rispecchia una volontà divina, come spiegare la ricchezza detenuta dagli infedeli? Come tollerare che una riserva indiana, grazie ai giacimenti di petrolio scoperti dentro il suolo, diventi il territorio con i più alti valori di ricchezza pro capite del mondo? I nativi americani della nazione Osage, in Oklahoma, sono la popolazione più ricca degli Stati Uniti, ma cosa hanno fatto per meritarsi quel benessere? E come si permettono di detenerlo, indossarlo, ostentarlo fino al paradosso di legare a sé, attraverso accordi commerciali, la forza lavoro bianca?
La grandezza di Killers of the Flower Moon, e il motivo per cui si ritaglia un suo spazio autonomo e fortemente significante nel filone cinematografico dedicato alla rilettura insanguinata della fondazione americana (da I cancelli del cielo a Il petroliere passando per Gangs of New York dello stesso Scorsese, controtipi del mito intenti a mettere sotto nuova luce quali furono davvero the hands that built America), sta tutta qui, in questa sorta di bestemmia urlata contro il cielo, una stortura grottesca da cancellare e correggere a ogni modo. Finanche soffocandola nel sangue, storpiandola nello sfregio umiliante della disperazione. Affinché la ricchezza generata dal capitalismo ritorni nelle mani dei legittimi proprietari, di coloro che soli possono viverne il benessere all’interno della dimensione teologica dettata dalla grazia divina (la quale, evidentemente, non contempla il paradosso per cui l’origine del benessere sono i giacimenti offerti dal territorio, di cui i nativi sono, ontologicamente e contrariamente al pensiero bianco, i detentori naturali). Raccontare il piano oscenamente criminale di William Hale, i sotterfugi, gli inganni e gli omicidi attraverso i quali quel fiume di denaro nero veniva via via deviato e ricondotto lungo il suo corso verso la legittima foce, permette a Scorsese non solo di gettare una luce sulla cronaca dimenticata ma di contribuire al processo di decolonizzazione della storia culturale americana creando un ponte tra le sue forme di razzismo sistemico, genocidio e ferinità capitalistica, e l’impianto ideologico europeo, quindi occidentale tutto.
Dotato di una forza mercuriale, letteralmente febbrile in certi momenti del racconto, e di un incedere morale e tensivo che non lascia scampo, come una tagliola che lenta si serra attorno alla gola e preme sempre più sulla giugulare, un millimetro alla volta, Killers of the Flower Moon si rivela un’esperienza cinematografica ben più intensa e stratificata di The Irishman. Un film prodotto da Apple ma pensato per tutto fuorché piattaforma, che parla la lingua del grande cinema e decide di farlo per tre ore e mezza di racconto, senza sbavature o lungaggini di sorta.
Talmente convinto del progetto da mettersi in gioco in prima persona, nello splendido finale tra archeologia dei media e lezione di cinema politico, Scorsese mette in campo un’energia e una lucidità registica mai perdute, e che davvero scuotono occhi e animo a confronto con il panorama odierno. Killers of the Flower Moon è un gesto di fede dovuta, un’ulteriore scavo nella nascita mostruosa di una nazione, un affresco che riporta l’immagine del cinema americano a forme di epica e classicità perdute. L’occhio si spalanca, come nella danza finale intrapresa dagli Osage tra gli alti fili d’erba delle loro praterie, un ballo tribale in cui turbinano nel vento corpi, tessuti e colori, ripreso dall’alto di un plongée che ne stilizza la forma circolare, l’iride dilatata rivolta verso il cielo.